Una nuova ricetta per gli Usa

Intervista a Arthur Laffer
George Washington Bridge

«Donald Trump farà senz’altro bene per l’economia americana. Il suo progetto, dagli investimenti in infrastrutture alla tutela rispetto alla delocalizzazione, dall’abbassamento delle tasse alla liberalizzazione interna, sarà un toccasana per l’America, e quindi anche per i suoi alleati». Arthur Laffer, classe 1940, ha la grinta, la simpatia e l’entusiasmo trascinante di sempre. Ha soprattutto la competenza: la stessa che colpì Donald Rumsfeld e Dick Cheney, due dei più prestigiosi rappresentanti dell’amministrazione Nixon all’inizio del 1974, quando a tavola – Laffer era in quel momento un giovane economista con il PhD a Stanford che insegnava all’University of Southern California - disegnò su un tovagliolo la celeberrima “curva” che poi si chiamerà appunto “di Laffer”, e dimostrò loro che la riduzione, oculata e calibrata, delle imposte soprattutto per le imprese, si traduce sul lungo termine in maggiori entrate, «e soprattutto maggiori investimenti», puntualizza.

Rumsfeld e Cheney fecero “carriera” e arrivarono ad essere rispettivamente segretario della Difesa e vicepresidente con Bush junior. Lei divenne in seguito capo economista di Reagan. Insomma la “curva” ha portato fortuna a tutti…

«Per il semplice motivo che si è dimostrata veritiera nei fatti. Come spero che vi ricorderete gli anni della Reaganomics, dal 1981 al 1989, furono anni di grandi trionfi per l’economia americana, di Pil in crescita a doppia cifra, di inflazione domata, di dollaro forte. Semplicemente, la ricetta economica si rivelò quella giusta. E ora Trump la ripropone, e avrà uguale successo. Sarà un meraviglioso tonico per l’economia americana». 

Lei è in contatto con Trump? Entrerà ufficialmente nel suo staff?

«Ho avuto lunghi ed esaurienti colloqui con il nuovo presidente, prima durante e dopo il suo insediamento, e con tutti i membri del Gabinetto economico, che conosco alla perfezione uno per uno. Insieme abbiamo aggiornato la “curva” e tutto il pacchetto di misure economiche, che riproducono in larga parte, ovviamente adattandole ai tempi attuali (l’inflazione tanto per fare un esempio oggi praticamente non c’è e allora era al 15% in America) le misure che allora si rivelarono vincenti. Quanto ad assumere incarichi ufficiali, preferisco evitare. Sto benissimo dove sono, qui a Nashville, Tennessee, dove ho il mio avviato think tank personale, con tanti ragazzi bravissimi che sarebbe un peccato abbandonare. Ma sarò sempre vicino a Trump e ai suoi uomini, se me lo chiederanno».

Donald Trump
Donald Trump
Ma i piani del programma del nuovo presidente sono tutti attuabili? Su alcuni c’è una forte polemiche, come sul protezionismo.

«Trump ha ragione su diversi punti. Gli accordi commerciali, sia quelli in vigore che quelli in discussione, dal Nafta al Ttip, sono generalmente scritti male e vanno corretti, il che ovviamente è più semplice per quelli ancora da approvare. Così come è vero che diversi Paesi, a partire da Cina e Giappone, hanno atteggiamenti protezionisti e barriere all’ingresso assolutamente inaccettabili. Ma sarebbe un grave errore rispondere con dazi di ritorsione (“countervailing duties”). Dalle guerre commerciali hanno avuto sempre tutti da perdere. Viceversa le diatribe commerciali vanno risolte con la diplomazia, con interventi sia bilaterali sia nelle sedi istituzionali tipo il Wto.

Contrariamente a quello che si dice, i consumatori e l’economia cinese e giapponese avrebbero tutto da guadagnarci da una schietta concorrenza con le aziende americane. Oggi attrezzare le marmitte delle auto americane per la vendita in Giappone costa 50mila dollari, e la Cina ha un’ampia gamma di politiche antiamericane in vigore. Abbattere tutte queste barriere senza limitarsi a imporne altre in America sarà compito dei leader più illuminati. Fra i quali ho tutte le ragioni per inserire Trump. Gli ho fatto quest’esempio: pensa se gli Stati Uniti sviluppano una cura per il tumore al colon e il Giappone una per l’Alzheimer. Che facciamo, vietiamo l’ingresso nei rispettivi Paesi a queste cure, condannando a morte i pazienti che sono incurabili? Il tutto per un malinteso spirito “anti libero commercio” che è proprio quello da evitare».

Un altro grande punto sono le infrastrutture. Trump ha lanciato piani giganteschi, da 500 miliardi o addirittura un trilione di dollari. Li ritiene fattibili?

«Non solo fattibili ma assolutamente necessari. Le infrastrutture rappresentano il punto focale e centrale di tutta la politica economica del nuovo presidente. Nel senso che sarà possibile finanziarne sempre di più man mano che le altre riforme produrranno una crescita americana almeno doppia di quella attuale. In un clima di economia sostenuta, di investimenti privati massicci – quelli ottenibili con i ribassi fiscali – anche gli investimenti nelle grandi opere cresceranno.

Del resto, che ci sia bisogno di nuove strade, e di ponti, dighe, porti, aeroporti, ferrovie, è sotto gli occhi di tutti. Detto questo, suggerisco di non lasciarsi andare a stime iperboliche, del resto riferite ai prossimi dieci anni: si dice 1.000 miliardi, ma potrebbero essere un po’ di meno come anche di più, dipenderà da come andrà l’economia e soprattutto da una verifica puntuale caso per caso dei veri lavori di cui ci sarà bisogno».

Lei cita ripetutamente l’andamento dell’economia, che dipenderà soprattutto dalle diminuzioni delle tasse. Ci può dare un ordine di grandezza?

«Guardi, è presto detto. Le aziende americane pagano oggi fino al 44% di imposte federali, una somma esorbitante e superiore alla media Ocse che è del 35. Propongo di abbatterle subito almeno alla media Ocse, e poi rapidamente molto più in basso. L’ideale sarebbe una flat rate, cioè un’aliquota uguale per tutti, del 19%. È una riforma importante, che si può però fare soprattutto se si tiene conto degli equilibri favorevoli esistenti nel Congresso. 

Ricordo che un cammino simile lo facemmo ai tempi di Reagan, e culminò nella legge bipartisan che prese il nome dal senatore democratico Daniel Patrick Moynihan e quello repubblicano Bob Packwood, che fu approvata dal Senato con una maggioranza mai vista, 97 a 3. La legge riduceva l’aliquota più alta per gli individui dal 50 al 28% e per le corporation dal 46 al 34. Per le persone fisiche le aliquote da 14 diventarono due (15 e 28) e per le corporation appunto una, la flat tax di cui le parlavo all’inizio. Il risultato in termini di sviluppo economico fu stupefacente: non vedo perché non si debba ripetere oggi»