Oltre il rischio

Intervista a Robert Engle
Deutsche Bank towers

Robert Engle è un economista presso la Business School della New York University, nonché il vincitore del Premio Nobel 2003 per aver sviluppato con un altro economista un metodo per analizzare la volatilità nei mercati finanziari.
Più recentemente, Engle ha cofondato la Society for Financial Econometrics, un network globale di esperti nel settore. Ecco perché è la persona giusta per fornirci una sorta di bussola per orientarsi in quello che sta accadendo oggi sui mercati e nell’economia globale, e per valutare quali misure intraprendere per sentirsi sicuri sul lungo termine.

Professore, cos’è che sta rallentando i mercati e l’economia globale?

«L’ondata di vendite sui mercati prende le sue radici nelle paure sulle prospettive di crescita dell’economia mondiale, paure guidate da  un rallentamento in Cina e dal collasso dei prezzi petroliferi. La sofferenza si è quindi allargata dalle azioni delle compagnie energetiche e in generale dei gruppi che hanno a che fare con le materie prime fino a settori come la finanza e la tecnologia.

Possiamo identificare un gran numero di ragioni per tutto questo, ma sono comunque sintomi di un problema più grosso: un deficit di crescita su scala mondiale e la percezione del rischio di una recessione globale.
L’impatto è stato quello di alzare il costo dell’indebitamento privato e di dare il via a un lungo periodo di mercato depresso per le commodities e poi per molti mercati emergenti e le loro valute».

Oggi come oggi è necessario gestire il rischio. Quali contromisure suggerirebbe lei a un investitore?

«Ci sono diversi settori sotto tiro, che devono essere trattati a dir poco con attenzione. Prendiamo le banche e in generale il settore finanziario. Qui i problemi sono duplici.

Le rinnovate preoccupazioni sulla salute del sistema bancario in Europa hanno gettato un’ombra anche sulle loro controparti americane. Il sistema finanziario europeo si sente ancora sottocapitalizzato rispetto agli Stati Uniti e in generale sottocapitalizzato rispetto alle minacce che fronteggia.

Tutto questo non dovrebbe influenzare direttamente gli Usa, senonché – ci piaccia o no – così accade.

Il guaio è che l’ultima crisi si generò proprio dal sistema finanziario, nessun paese può essere definito protetto ermeticamente, così sui mercati c’è un’attitudine pregiudiziale contro il sistema finanziario stesso. Per di più, gli investitori stavano aspettando da anni che il sistema bancario finalmente cogliesse i frutti dell’aumento dei tassi.

Bay Bridge San Francisco

Niente di tutto questo: con questa turbolenza di mercato, le aspettative per un rialzo dei tassi sono passate da poche a nessuna, mentre l’appiattimento della curva degli interessi nella maggior parte dei mercati ha ulteriormente compresso i margini di profitto da interessi delle banche.

Al di fuori del settore finanziario, propongo di essere prudenti con la tecnologia. Un gruppetto di superstar di questo settore – le cosiddette Fang (Facebook, Amazon, Netflix e Google) – erano state la causa dei guadagni del 2015. Sono state pesantemente punite quest’anno, trascinando al ribasso l’intero settore tecnologico.

Come ulteriore segnale che lo stimolo positivo nelle transazioni dell’anno scorso è evaporato, va considerato il settore biotecnologico, che ha perso più del 25%. Nell’ultimo trimestre, tutte queste aziende stanno disattendendo le stime fatte in precedenza da Wall Street, e gli analisti si vedono costretti ad abbassare di volta in volta l’asticella delle loro previsioni sull’andamento dei valori di Borsa».

In quali mercati ci sono i rischi maggiori?

«Una bruciante questione fin dall’inizio del 2016 è questa: per quanto tempo paesi come Cina, Arabia Saudita e altri potranno continuare a fare affidamento sulle riserve valutarie per risparmiare le loro valute da un crollo troppo pronunciato?

Mentre l’economia mondiale mostra ulteriori segni di indebolimento e il collasso nei prezzi delle commodities ha penalizzato i bilanci di molti paesi, gli investitori stanno scommettendo proprio sul ribasso delle monete più deboli e, inoltre, sulla fine del legame con il dollaro della moneta saudita».

Tutto questo significa che siamo sull’orlo di un nuovo 2008?

«In realtà esistono ancora molte importanti differenze. Torniamo alle banche: malgrado tutti i problemi, esse sono più forti di allora.

Ma sul tavolo ci sono anche altre differenze. Il prezzo del petrolio, per esempio, era allora ai massimi, ora è così depresso che ha perso  il 70% del suo valore in un anno e mezzo. Una crisi mondiale da superofferta ha portato giù i prezzi, in parte come risultato del boom del fracking per lo shale oil americano (la particolare tecnica di estrazione del petrolio dalle rocce bituminose utilizzata negli Stati Uniti

n.d.r.). A un incontro nel novembre 2014, il ministro saudita del petrolio Ali al-Naimi ha chiesto che il cartello Opec mantenesse i livelli produttivi di allora malgrado l’eccesso di offerta. La scommessa di mantenere la quota di mercato e forzare i produttori esterni a restare ai margini ha causato una produzione mondiale da record di 32 milioni di barili al giorno ancora nel gennaio 2016, ben 131mila barili al di sopra del mese precedente.

Il rientro dell’Iran sul mercato petrolifero ha esasperato la situazione.

Ora è importante vedere se le recentissime aperture dell’Iran che cerca un colloquio con i sauditi porteranno a qualcosa. Tornando alla situazione generale, come dicevo ci sono importanti differenze con il 2008, e una di queste è che adesso si aprono delle opportunità».

Può farci qualche esempio?

«Fermo restando che i settori finanziario e tecnologico sono al momento da evitare, esiste in America e nel mondo un ampio campo di opportunità per gli investitori di allocare il proprio capitale e per le aziende di fare investimenti produttivi e aprirsi nuovi mercati.

Penso ai settori dell’agroindustria, della chimica verde, della salute e dell’industria biomedica (senza gli eccessi speculativi del biotech). Anche nel settore delle infrastrutture si aprono finestre di opportunità viste le severe carenze anche negli Usa: ponti, ospedali, strade, aeroporti.

È su questi pilastri che posano le basi di una crescita nelle condizioni di vita nei Paesi emergenti e di un salto di qualità nel mondo industrializzato».