Infrastrutture per collegare il mondo

Intervista a Parag Khanna
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Che ruolo giocano le infrastrutture nella connettività, ossia la capacità di collegare tra loro persone ma anche sistemi economici e produttivi?

«Le infrastrutture sono lo strada attraverso la quale la connettività viene raggiunta. Infatti noi parliamo di connettività come se fosse qualcosa di intangibile, ma invece è molto fisico e concreto. Ci sono tre categorie di connettività: energia, trasporti, comunicazioni. Non c’è connettività senza infrastrutture, questo è il punto chiave. Quindi non dovremmo darlo per scontato».

Ritiene che la maggior parte dei governi lo diano per scontato?

«Semplicemente non hanno valutato in pieno il tempo necessario per il reinvestimento, la rigenerazione e il rinnovamento delle infrastrutture. Nella storia, la formazione del capitale infrastrutturale è stata guidata dagli investimenti pubblici, quindi non è vero che i governi non ne percepiscono il valore. Ma non considerano il lasso di tempo giusto per fare in modo che questi investimenti vengano catalizzati nell’economia reale. Quando lo capiscono, ormai è troppo tardi».

Lei dice che il costo del non fare nulla si accumula quando un problema non viene affrontato in tempo.

«Quando vengono stanziati pochi fondi per investimenti infrastrutturali necessari, il degrado del patrimonio infrastrutturale prosegue e questo comporta perdite significative in termini di produttività dovute al congestionamento, salari persi e tutti gli altri segnali di performance economiche che derivano dall’avere infrastrutture insufficienti. Ed esaspera le diseguaglianze perché aumenta la distanza tra chi ha e chi non ha».

Ci sono alcuni Paesi che stanno intervenendo su questo?

«Piccoli Paesi ricchi facili da individuare. Singapore ha il tasso di formazione di capitale infrastrutturale più alto al mondo. Loro costruiscono senza sosta e ogni cosa è sempre nuova. Ma è più interessante parlare di grandi Paesi e città. Cina, Sud Corea, Giappone, sono questi che guidano la classifica. Compresa la Germania.
La Germania e il Giappone sono di particolare interesse perché sono Paesi molto grandi con una enorme dotazione infrastrutturale che ha rappresentato un motore massiccio per la crescita. Adesso in entrambi Paesi l’infrastruttura è di nuovo strumento della politica pubblica. Proprio in questo periodo tra le questioni politiche in Germania, uno dei principali problemi che Angela Merkel sta affrontando sono le lamentele di camionisti, sindacati e altri che denunciano la decadenza delle infrastrutture di trasporto. E se le infrastrutture sono in degrado in Germania, è facile immaginare quanto stiano peggio negli Stati Uniti».

Negli Stati Uniti, quale delle tre categorie versa nello stato peggiore?

«I trasporti. Molte persone si mostrano orgogliose della rete ferroviaria statunitense, ma anche quella è ormai inadeguata. Se lo stato dell’infrastruttura è considerato relativamente buono dai passeggeri questo non significa che sia molto buono, per questo penso che entrambe le categorie di trasporto ferroviario, passeggeri e merci, versino in uno stato arretrato così come le highways e gli aeroporti, che sono in condizioni orribili».

Ci sono alcune città o regioni che sono invece all’avanguardia?

«Seattle ha adottato una nuova strategia di finanziamenti pubblici per migliorare la condizione delle strade, e per realizzare nuovi edifici di edilizia agevolata… Sono state fatte molte cose per rendere la città più attrattiva per i giovani e per sostenere l’imprenditorialità. Adesso stanno studiando quello che è chiamato il Cascadia Corridor, un network di trasporti da Vancouver a Seattle e da lì in direzione Sud attraverso Oregon e fino alla California. In questo modo Washington si distingue come un esempio molto all’avanguardia».

Esiste un punto di non ritorno oltre il quale le città e gli stati americani realizzano che devono fare qualcosa, come ad esempio il collasso di un ponte?

«Prima era molto differente. E infatti abbiamo la Pacific Railroad, l’Interstate Highway System, la Tennessee Valley Authority… ci sono così tanti buoni esempi relativi ai 200 anni passati nei quali gli Stati Uniti hanno pianificato il loro sviluppo su scala continentale. Niente di questo sta accadendo oggi».

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Times Square, New York City
Cambiando continente, la gente parla dell’Africa come della prossima regione di interesse dopo l’Asia.

«Per l’Africa, io credo nell’integrazione sub-regionale. Ne sono convinto ad esempio per la comunità dell’Africa orientale: Etiopia, Kenya, Uganda, Rwanda, Tanzania. Ci sono diversi progetti in corso per realizzare un gasdotto dall’Uganda alla costa, un corridoio multimodale ferroviario che dovrebbe coprire anche il bisogno energetico della regione orientale, e un’attività di promozione degli investimenti congiunta. In tutto un bacino d’utenza di 220-250 milioni di persone. Questo è promettente».

E l’Asia?

«Quello cui assistiamo in Asia è la guida cinese negli investimenti infrastrutturali, alla quale si aggiungono i progetti esterni sia bilaterali che finanziati dalla AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank), come la nuova Via della Seta, chiamata in Cina “One Belt, One Road”. Tutti questi progetti sono veramente in fase di lancio. Ci sono i gasdotti nel mar Caspio; le linee ferroviare che dall’Uzbekistan e dal Turkmenistan si collegano con l’Iran. E ci sono moltissimi progetti, di cui la quota finanziaria dall’AIIB è solo una porzione perché per la maggior parte derivano da accordi bilaterali tra Paesi. Ad esempio nel China-Pakistan Economic Corridor (CPEC) la quota di investimenti della AIIB è solo una frazione del totale. Anche i gasdotti per le forniture energetiche dalla Russia sono progetti bilaterali. Se sommiamo insieme i progetti bilaterali, quelli multilaterali e quelli della AIIB, allora notiamo che c’è un enorme concentrazione di investimenti in Asia che sta stringendo uno all’altro i vari Paesi».

Si assiste ad un maggior coinvolgimento degli investitori privati?

«Nell’Asia del Sud, in Indonesia, Filippine e India in particolare, notiamo un sistema interamente nuovo mirato a utilizzare il mercato (attraverso ad esempio l’emissione di bond) per raccogliere i capitali necessari allo sviluppo infrastrutturale.
Questi Paesi sono le tre più grandi democrazie asiatiche per numero di abitanti e negli ultimi cinque anni tutte le loro piattaforme e dibattiti politici si incentrano sul tema delle infrastrutture, in modo che la classe politica sa di avere tante promesse da mantenere. E sono consapevoli che senza attrarre investimenti esteri, i capitali non starebbero lì perché non c'è spazio sufficiente per manovrare fiscalmente. E così si assiste a moltissimi dibattiti sui modelli di partnership pubblico-privato».

L’instabilità di alcune regioni è un ostacolo allo sviluppo?

«Perfino in Paesi instabili come il Pakistan è possibile notare che l’esercito è impegnato a ricollocare le truppe più per proteggere le infrastrutture che per proteggere i confini. La catena di fornitura e le infrastrutture stanno diventando gli asset più importanti sulle mappe geografiche, prima ancora che i confini. E il Pakistan ne è un perfetto esempio».

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Copenhagen
L’Europa non sta investendo come altre regioni, nonostante sia stato lanciato il Piano Junker.

«Il pensiero dominante in Europa è ancora quello ispirato all’austerità. Ma il problema evidente è che l’austerità non sta generando crescita. E di conseguenza non ridurrà neanche il debito. Avrei più fiducia nel mercato dell’Eurozona per la sua capacità di autofinanziarsi: i Paesi potrebbero infatti sostenere uno sforzo ben maggiore di quello previsto dal Piano Junker. Ma considerato che l’Europa non agisce come un’unione fiscale c’è molta preoccupazione per la capacità di ripresa di alcune economie. Mentre in America quella conversazione ormai è perduta… Per gli Stati Uniti, tutto resta a buon mercato per la finanza e nessuno parla di austerità».

Il trasporto pubblico assomiglia a una scommessa che nessuno può perdere: meno macchine, meno congestionamento, riduzione dell’inquinamento…

«Il problema è duplice. Il primo è culturale. In America ognuno vuole avere una macchina e, naturalmente, ci si aspetta che le città siano disegnate per il trasporto in automobile. Nel futuro, le città europee funzioneranno ancora perché sono molto sensibili ai pedoni e sono molto densamente popolate. Città come Atlanta in America non hanno una grande popolazione ma occupano un’area enorme. E questo non ha senso.
Questo porta al secondo problema che esiste ancora un’eredità infrastrutturale. Perché allora non è possibile avere un treno ad alta velocità tra Boston e Washington anche se un milione di persone al giorno utilizzando una linea Amtrak su quel tragitto? Perché ancora esiste una vecchia linea e nessuno vuole rimuovere la vecchia ferrovia e costruirne una nuova al suo posto. E nessuno ne vuole costruire una nuova parallela alla vecchia perché non c’è spazio. Nessuno vuole avere a che fare con i ritardi e i costi legati alla costruzione di un sistema più produttivo».

Ma abbiamo casi come quello di Copenhagen.

«Di nuovo, esistono luoghi con molta disponibilità finanziaria e un livello molto elevato di volontà politica. Popolazioni meno numerose e una cultura totalmente differente. A Londra, alcuni tracciati trafficati vengono trasformati in piste ciclabili. Nelle città dove c’è la volontà pubblica di farlo, questo accade. A New York City, ad esempio, Times Square è stata chiusa alle macchine in alcuni momenti della settimana. Ci sono bar all’aperto adesso. E le persone si adattano».