Dove vanno i giovani talenti: all’estero in cerca di lavoro

Intervista a Enrico Moretti

La crisi economica appena passata ha lasciato trasformazioni profonde nel mondo del lavoro: chiusure a catena delle fabbriche-cattedrali che una volta erano il centro dell’occupazione, tramonto di vecchie specializzazioni non più necessarie, paghe ridotte per molti. Eppure la ricerca di impiego non è mai stata più promettente, dice l’economista Enrico Moretti, specialmente per chi ha un alto livello di istruzione e una mente creativa. Basta andare a cercarlo nelle nuove capitali di cui ha scritto nel suo libro “La nuova geografia del lavoro”, un’analisi dettagliata della transizione tra la vecchia e la nuova economia industriale.
Professore all’università di Berkeley, consulente di Obama e visiting scholar della Federal Reserve Bank di San Francisco, Moretti è la guida ideale per chi come è successo a lui più di vent’anni fa, ha vent’anni, nutre grosse ambizioni, e vuole esplorare il mondo a mente aperta.

Professore, cosa conviene fare ad un giovane che ha appena preso la laurea?

«Io consiglio di cercare subito un’esperienza di lavoro all’estero, che è la scelta più formativa che si possa fare per aprire la propria mente e la propria cultura su nuovi orizzonti. Partire non vuol dire emigrare, ma cominciare a costruire la carriera partendo con un tassello prezioso per il futuro».

Come ci si orienta nella scelta?

«Le città che attraggono maggiore immigrazione hanno due caratteristiche: da una parte un’alta concentrazione di capitale umano, e con questo intendo un alto livello nei titoli di studio post universitari; dall’altra un numero elevato di imprenditori innovativi. Non importa quale sia il settore industriale in cui operano, ma è indispensabile che ci sia propensione al rischio e investimento sull’innovazione.  In un Paese come gli Usa queste condizioni sono presenti a San Francisco, New York, Boston, Austin, Washington, ma anche Raleigh, San Diego, Seattle».

Le amministrazioni cittadine hanno un ruolo nella creazione di poli di eccellenza per attrarre i cervelli in fuga?

«Dipende. In Nord America le tre città che sono più cresciute negli ultimi decenni lo devono quasi esclusivamente alle industrie di riferimento che vi si sono impiantate. A Seattle la Microsoft, ad Austin la Dell, e a Raleigh diverse aziende di High Tech. Le municipalità non hanno nulla a che vedere con il fenomeno».

Quali sono le mete più attrattive per i giovani talenti in cerca di lavoro all'estero?

«La risposta ovvia è Londra. Una cosa è vedere esplodere una città che nasce dal nulla del deserto come Phoenix, ma quando una capitale europea con migliaia di anni di storia cresce di un milione di abitanti in dieci anni, c’è davvero da restare meravigliati.
Stoccolma e Zurigo per restare in Europa sono due altri poli in grande fermento. Tutte e tre queste città offrono mercato del lavoro flessibile, un regime fiscale lineare e una giustizia dai tempi rapidi e affidabili.
L’assenza di questi elementi ha invece penalizzato Parigi, che pochi decenni fa era una città gemella rispetto a Londra nella guida dell’Europa. C’è poi da considerare l’effetto volano che la crescita imprime all’economia: altre imprese sono attratte a trasferirsi dove c’è un’alta concentrazione, e per questo oggi siamo arrivati al paradosso di vedere tante aziende che dalla base londinese servono sempre più clienti a Roma o a Parigi».

Londra, una delle mete principali dei giovani che vanno all'estero per lavoro
Distretto finanziario di Londra
Quindi anche Paesi dalle economie più tradizionali come l’Italia possono beneficiare di questa maggiore qualità e innovazione nel lavoro?

«In Italia, ad esempio, così come anche in Francia, c’è una grande abbondanza di capitale umano di prim’ordine. Se si riuscirà a spianare la strada agli investimenti di conseguenza anche la forza lavoro acquisterà alta qualità e maggiore competitività sul mercato, e questo fenomeno si arricchirebbe con il ritorno di tanti che oggi sono impiegati all’estero.
Anche per questo l’attuale emigrazione intellettuale non va vista come una piaga ma come una risorsa da poter acquisire quando inizierà la ripresa del nostro sistema produttivo».

Lei ha scritto che gli amministratori delle città che sono state fatte bersaglio dalla crescita dovrebbero rimuovere tutti gli ostacoli anche allo sviluppo infrastrutturale. Ma questa nuova industria dominata da software e high-tech non è troppo volatile per fornire garanzie di lunga durata dell’impiego?

«Certo la costruzione di una fabbrica di automobili il secolo scorso era più tangibile e duratura, ma è un errore pensare che l’industria odierna non offra stabilità. Le aziende possono andare e venire, passare dall’hardware al software, dai social media alla intelligenza artificiale fino alla realizzazione di grandi opere complesse. Ma il capitale umano che hanno attirato resta, ed è l’alta concentrazione di creatività ad assicurare lavoro nel tempo in una data zona».

Abbiamo parlato finora esclusivamente di alta specializzazione. Ma cosa accade ai lavoratori meno qualificati?

«Sono i primi ad essere beneficiati dallo sviluppo del lavoro di alta qualità, perché l’indotto che si forma a partire dalle aziende più innovative cresce in modo esponenziale alla loro base. È questo rapporto di simbiosi che continua a fare grande New York, una città che attrae un’enorme massa di nuovi immigrati a bassa qualifica, ma nella quale al tempo stesso continua ad arrivare la selezione migliore delle menti creative. Non si può avere una di queste componenti in mancanza dell’altra. È l’interazione dei due gruppi sociali che fa la grandezza di una città».