Paesi sviluppati: adesso via alle infrastrutture

Intervista a Angel Gurria

«È il momento dei mercati maturi, America ed Europa in testa, e questo momento va sfruttato nel modo migliore: investendo nelle infrastrutture e attivando così sull’economia reale un virtuoso effetto a catena».
José Àngel Gurrìa, Segretario Generale dell’Ocse, lo ripete a margine del suo intervento di presentazione delle previsioni economiche d’autunno dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, tenuto in occasione dell’ultimo Forum Nouveau Monde di novembre, una due giorni di dibattiti e seminari che ogni anno vede riuniti a Parigi una trentina di economisti di tutto il mondo.

Dal Forum è emerso che l’Ocse prevede un rafforzamento della cresciuta globale nel 2016 e nel 2017 ad un tasso annuo rispettivamente del 3,3 e del 3,6%.

In quest’occasione il numero uno dell’Ocse ha ribadito il concetto: «I Paesi emergenti, dopo aver per tanti anni dato un contributo decisivo alla crescita mondiale, adesso hanno frenato. Alcuni, come Russia e Brasile, sono in profonda recessione, mentre il marcato rallentamento che è in corso in Cina, unito alle perdite sui mercati delle commodities, sta dando un segnale estremamente negativo per una parte importantissima del mondo, compresi tutti gli esportatori di materie prime».

Dopo diversi anni di sofferenze, possiamo quindi dire che è di nuovo il momento dell’Europa e dell’America? Che insegnamento se ne trae?

«Sicuramente le leve internazionali della crescita stanno mutando. I Paesi di più recente industrializzazione devono migliorare i conti interni, spingere di più sui consumi e non affidarsi solo alla leva dell’export a basso costo e bassa qualità. Devono ristrutturare i mercati del lavoro, migliorare la produttività e rafforzare le rispettive strutture democratiche. Comunque, di insegnamenti ce ne sono anche per i Paesi più avanzati».

Quali, per esempio?

«Sia l’Europa che l’America devono trovare il coraggio, ora che la congiuntura è favorevole, per effettuare investimenti ambiziosi in termini infrastrutturali. L’Europa ha sofferto degli eccessi di austerity, com’è noto, ma anche l’America, che pure ha dedicato agli investimenti pubblici cospicue risorse dopo la crisi finanziaria del 2008, dovrebbe spingersi più in là, cogliendo tra l’altro l’occasione per una erie di lavori pubblici molto urgenti. Negli Stati Uniti, ad esempio, si parla molto di questo piano che il presidente Obama sta lanciando, nell’ultimo anno della sua presidenza. Un progetto così ambizioso da essere definito un “Piano Marshall 2.0”, che prevede investimenti per 300 miliardi di dollari per dare il definitivo sostegno all’economia del Paese. È un progetto molto importante che acquisirà sempre più centralità e il punto qualificante di questo progetto sono proprio gli investimenti infrastrutturali. L’idea è quella di fornire un ulteriore supporto a un’economia che è vero che cresce a ritmi del 2-2,5% ma è ancora sotto il potenziale, che secondo i nostri calcoli è del 4%».

Sono già stati previsti degli interventi specifici?

«Uno degli interventi inseriti nel Piano, che andrà oltre la presidenza Obama e richiederà almeno quattro anni, è il rinnovamento della rete viaria degli Stati Uniti. Già esiste l’Highway Trust Fund, ente federale che gestisce la rete dei trasporti statunitensi, che verrà massicciamente ricapitalizzato con circa 100 miliardi di dollari, mentre altri 200 miliardi sarebbero destinati a reti ferroviarie, ponti, porti. In quest'ottica non meno di 600 milioni saranno ripartiti in bandi di concorso per progetti innovativi: chi più innova avrà il giusto incentivo per procedere su questa via. La stima di 700mila lavoratori interessati al progetto parla da sola. Inoltre il volano degli investimenti pubblici stimolerà anche una ripresa di quelli privati, oltre al miglioramento dei consumi interni».

Guardando invece all’Europa, quanto conterà il Piano Juncker nel rilancio di alcuni settori come quello infrastrutturale?

«Il Piano darà un contributo fondamentale. Si tratta infatti di un mega progetto comunitario da 315 miliardi di euro, divisi fra fondi comunitari e fondi privati, impegnati per rilanciare gli investimenti in Europa. Il Piano, che ha validità triennale, è partito ed entro la fine dell’anno saranno sbloccati i primi progetti per 50 miliardi in tutta Europa. E proprio il panel di interventi previsti dal Piano è uno degli elementi che spingono la crescita economica dell’Unione europea, prevista in espansione anche nel 2017 (+1,4%), con una crescita delle importazioni e degli investimenti». #gallery:439#

Dopo anni di stagnazione, dove nasce questo nuovo vigore economico dei Paesi più sviluppati?

«I Paesi più avanzati traggono beneficio dai bassi costi del denaro, dall’ampia disponibilità di risorse derivante dai quantitative easing già sperimentati in America e Gran Bretagna e ora in corso nell’area euro e in Giappone, e anche dal miglioramento sui rispettivi mercati del lavoro. Viceversa i Paesi emergenti pagano lo scotto di crescite troppo precipitose alle quali spesso non hanno corrisposto misure di stabilizzazione interna più precise con il conseguente aumento a dismisura delle diseguaglianze, delle carenze di governance e delle carenze della stessa democrazia industriale. Ora il meccanismo che si sta avvitando non sarà facilmente reversibile: i graduali aumenti del costo del denaro in America, per esempio, porteranno a una rivalutazione del dollaro. Per l’Europa è una notizia positiva perché la svalutazione dell’euro è un toccasana per le esportazioni, mentre per i Paesi in via di sviluppo è un disastro perché porta alla fuga dalle rispettive valute, e soprattutto perché questi Paesi sono fortemente indebitati in dollari e quindi il costo del loro indebitamento sale vertiginosamente».

In tutto il mondo oggi si parla anche del fenomeno-deflazione, che indebolirebbe le economie. Come fare per compensarlo?

«Dopo esserci abituati a convivere per tanti anni con un’inflazione alta, ora c’è il fenomeno opposto. La deflazione impoverisce le economie perchè frustra e indebolisce i consumi in quanto gli individui non comprano oggi quello che potrebbe costare di meno domani. È tutto un meccanismo che si avvita verso il basso, molto difficile da vincere. I bassi costi delle materie prime, petrolio in testa, e del denaro, fanno il resto. Il fenomeno è simile in Europa e in America. L’inflazione è proiettata secondo i nostri calcoli verso un mero 1,7% in America nel 2017 e ancora più in basso, al massimo l’1,5%, in Europa. Bisognerà convivere con questo fenomeno, e sta alle banche centrali architettare tutte le misure necessarie, come già stanno facendo, per sbloccare anche questa leva dell’economia. Ma non è l’unico fattore negativo che registriamo al momento nell’occidente industrializzato».

A cosa si riferisce?

«Beh, stavo riflettendo sulle considerazioni del recente premio Nobel dell’economia Angus Deaton, sul ruolo che l’economia liberale può giocare in favore dei diseredati di tutto il mondo. Deaton non vuole sovvertire l’economia capitalista, anzi ritiene che abbia un ruolo di acceleratore dello sviluppo da mettere al servizio anche dei popoli più sfortunati. Dimostra però un’attenzione sia verso le storture interne che questo modello economico provoca, a partire dalle diseguaglianze all’interno del “primo mondo”, sia verso la necessità di un vero e costruttivo aiuto ai Paesi emergenti. Prendiamo i fondi di solidarietà e cooperazione che l’occidente riversa in questi Paesi, ama ripetere Deaton. Quanti di questi denari aiutano veramente queste popolazioni? Eppure gli aiuti sono fondamentali: servono a costruire scuole, ospedali, strade. Occorre maggiore attenzione nell’attribuirli e un genuino spirito di solidarietà. In quest’ambito c’è ancora tantissimo da fare, e l’occidente industrializzato porta per intero la responsabilità di non abbandonare al proprio destino una moltitudine di esseri umani che ha mancato il cammino della storia».