Che cosa serve all’America

Intervista a Allen Sinai

«Gli Stati Uniti hanno bisogno di un “Piano Marshall”, finanziato sempre dall’America ma stavolta a beneficio dell’America stessa». Parola di Allen Sinai, uno dei più prestigiosi economisti americani, 70 anni, già consulente economico della Federal Reserve nonché dei presidenti Bush padre e Clinton, oggi a capo della Decision Economics, un think-tank di New York da lui fondato.

«Secondo un rapporto dell’American Society of Civil Engineers – aggiunge Sinai – all’America servirebbe un maxi-investimento complessivo pari a 3.600 miliardi di dollari (all’incirca un quinto del Pil degli Usa, ndr), ovviamente spalmato in un certo numero di anni, per risolvere “il significativo arretrato in termini di manutenzione, carenze di impianti, urgenza di rinnovamenti”».

E questo potrebbe essere il momento ideale considerata la ripresa dell’economia americana…

«L’economia americana sta crescendo a ritmo accelerato. Il secondo trimestre ha visto una crescita del 2,3 per cento annualizzato, contro lo 0,6 del primo quarter, e anche il terzo ha confermato il buon livello dell’aumento. La disoccupazione (5,3% in luglio) si sta approssimando a quello che la stessa Fed definisce il livello “di piena occupazione”, le vendite al dettaglio sono in ripresa e lo stesso “sentiment” dei consumatori è favorevole al miglior livello da molti anni. Insomma in America i cosiddetti “fondamentali” dell’economia sono sani, anche la produzione industriale marcia su livelli accettabili e l’energia a basso costo ha determinato una nuova rivoluzione industriale. Non credo che basterà lo scrollone cinese, pur violento, per abbattere tutto questo.
Certo, la Fed sta imprimendo un ritmo diverso da quello originariamente programmato per i propri rialzi dei tassi, ma non si può non comprendere le perplessità di Janet Yellen (Presidente della Federal Reserve), che non a caso ha annullato l’impegno di Jackson Hole (il summit annuale dei banchieri centrali, ndr) di fine agosto per evitare dibattiti imbarazzanti. È perfettamente consapevole che è meglio rinviare, cogliendo magari l’occasione che l’inflazione non ha ancora raggiunto i livelli desiderati, ma è ancora a metà di quel cammino. Non dimentichiamo che la Fed, al contrario della Bce, ha il doppio mandato di mantenere la stabilità monetaria e di sostenere l’occupazione. In altre parole, non prenderà mai, come può succedere in Europa, una misura che danneggi l’economia reale e le scelte politiche del governo. Va anche aggiunto che quasi mai nella storia alla Fed è riuscito di assolvere appieno il doppio mandato, cioè garantire una massa monetaria ordinata e tenere il più bassa possibile la disoccupazione, ma la Yellen è particolarmente sensibile su questo secondo punto per cui non è escluso che sia la prima a riuscirci».

Oltre al ruolo dello Stato e della Fed, c’è comunque una possibilità che gli investimenti in infrastrutture siano fatti anche da soggetti privati?

«Sì, ma queste partnership pubblico-privato non sono sempre semplici da mettere in pratica, specie per investimenti dalla redditività incerta o comunque troppo posticipata. Quello che è paradossale è che i soli fondi pensione, i fondi assicurativi e quelli d’investimento gestiscono in America una massa pari a 30 trilioni (30mila miliardi) di dollari, e spesso sono alla ricerca di validi strumenti di investimento. E quello che è più assurdo è che molti di questi fondi stanno già investendo in opere pubbliche, ma lo stanno facendo in Canada, in Gran Bretagna, in Olanda, in Australia, ma non in America.

Il momento è dei più favorevoli all’investimento perché i tassi d’interesse sono bassissimi (proprio in queste settimane la Federal Reserve sta approntando i primi rialzi dopo quasi dieci anni), il dollaro ha sempre più riaffermato il suo ruolo di valuta di riferimento mondiale e l’economia vive un momento di ripresa. Una ripresa che però non è dinamica come quella degli anni ’90 e dei primi anni del decennio successivo: non le sembri azzardato il paragone, ma senza l’appoggio fisico delle infrastrutture questa fragile ripresa potrebbe trasformarsi presto in una nuova fase di stagnazione se non di recessione. Quello che è più irritante è che nei vari piani finanziari approntati e utilizzati per tirare fuori l’America dall’ultima crisi finanziaria, quella del 2008-2009 generata dal crac della Lehman Brothers, quella per intenderci che poi è dilagata anche in Europa ma che da noi sembra definitivamente dimenticata, c’era una cospicua parte di investimenti pubblici destinati alle infrastrutture».

Di quanto denaro stiamo parlando?

«Parlo di cifre dell’ordine degli 800-1.000 miliardi di dollari: questa massa di denaro però è andata a soccorrere le banche, le assicurazioni, perfino l’industria automobilistica (compresa la Chrysler poi venduta alla Fiat, ndr), ma non è andata se non in minima parte alla realizzazione delle infrastrutture che doveva essere lo scopo primario. Anche perché sono proprio questi lavori a generare più occupazione presso tutte le fasce dei lavoratori».

Tornando all’economia americana e quindi alle opportunità di crescita e sviluppo anche del settore infrastrutturale, le sue previsioni sul medio termine sono favorevoli?

«Sostanzialmente sì, dovremmo assistere a una robusta ripresa americana almeno per qualche tempo ancora. Certo, il mercato azionario potrà scendere anche in modo marcato ma viene da sei anni di crescita ininterrotta, il ciclo più lungo della storia. Come dicevo, ci sono diversi indicatori favorevoli, ma anche alcuni segnali da tener d’occhio sul fronte interno, fermo restando che dall’esterno possono arrivare all’improvviso shock come quello cinese, di fronte ai quali la tenuta è da verificare momento per momento.
Fermo restando tutto questo, c’è un punto che mi impensierisce oggi, ed è che gli acquisti di software ed equipaggiamenti vari, sia da parte dei privati che delle aziende, non sono ancora massicci né convinti. Voglio dire che non sembra essere diffusa la convinzione che siamo avviati su un cammino di sicura, solida crescita. E questo a lungo andare potrebbe minare la crescita stessa. Però questo “Alternative macro risk scenario” è abbastanza improbabile. Per ora, puntiamo a valorizzare gli elementi positivi nell’attuale fase positiva».