«Infrastrutture carenti significa, a lungo andare, produzioni industriali carenti, non in grado di fronteggiare la concorrenza per esempio con i prodotti asiatici: quelli che provengono dalla Corea del Sud, dal Giappone e anche dalla Cina, Paese che parlando di infrastrutture non è secondo a nessuno. Disporre di reti elettriche e di trasporti all’avanguardia, di bacini idrogeologici efficaci, di una distribuzione energetica efficiente, significa poter affrontare meglio la concorrenza internazionale».
Guarda all’Europa Jean-Paul Fitoussi, uno dei più prestigiosi economisti del Vecchio Continente, e si interroga sul futuro degli investimenti, anche infrastrutturali, a valle delle elezioni tedesche che hanno sancito l’ennesima vittoria di Angela Merkel.
La nuova Germania sarà più aperta nei confronti degli investimenti e disposta a dare il via libera a un piano infrastrutturale per l’Unione europea che contribuisca a dare una spinta all’economia?
«Purtroppo non credo che la situazione degli investimenti pubblici in Germania migliori, anzi potrebbe peggiorare visto che i liberali, nuovi partner della coalizione che si sta faticosamente formando (il nuovo governo è previsto non prima di dicembre, ndr), sono più rigidi quanto agli equilibri del bilancio rispetto ai precedenti partner, i socialdemocratici che ora passano all’opposizione. Per essere precisi, visto che l’opposizione occupa tradizionalmente posti di gran rilievo nello scacchiere politico tedesco, potrebbe essere che alcune istanze come i maggiori investimenti in infrastrutture riescano a essere veicolate, ma il governo rimane l’artefice dell’indirizzo politico del Paese».
Rischiamo quindi una radicalizzazione del rigore monetario?
«Sembra che in Germania, che ha vissuto anche in tempi recenti i drammatici anni della troppa inflazione, si sia spinto troppo con le misure restrittive fino ad arrivare a una troppo bassa inflazione e infine alla deflazione. Occorre adesso un nuovo programma di spesa pubblica, a partire da quella infrastrutturale, per riequilibrare insieme l’economia europea e la capacità esportativa».
Alcuni anni fa lei ha scritto un libro di successo sulla crisi dal titolo “Il teorema del lampione”. Cosa c’entra un titolo del genere con le questioni economiche?
«Eravamo nel profondo della crisi economica e il riferimento era a una piccola storiella popolare francese: quella del tizio che cercava le chiavi sotto un lampione non perché fosse sicuro di averle perse lì ma solo perché quella era l’unica zona illuminata. Il collegamento con l’economia di oggi è che se continuiamo a cercare alla luce dei vecchi lampioni, allora, come l’uomo che ha perso le chiavi, perdiamo ogni possibilità di vederci chiaro. Perché la penombra ci spaventa e l’oscurità ci respinge».
Professore, si riferisce all’Europa o all’America?
«Beh, a tutt’e due. Cominciamo dall’Europa. Per tutti gli anni della crisi, la Germania ha avuto come obiettivo la stabilità dei prezzi, sulla quale sono stati puntati i riflettori della politica economica, e dei conti in ordine. Due parametri che si sono rivelati indipendenti dalla stabilità economica e finanziaria. A forza di impedire gli investimenti pubblici, in molti Paesi, compreso il mio (la Francia) ma anche l’Italia per non parlare della Grecia, la recessione si è aggravata, è durata molto più a lungo e ha lasciato code di miseria e di emarginazione sociale che si vedranno ancora per molti anni. L’Europa ha per molti anni avuto solo politiche per abbassare il debito pubblico senza riuscire tra l’altro nemmeno a fare quello».
Non è troppo critico verso la Germania, quella del miracolo economico post-unificazione?
«Nessuno mette in dubbio i meriti del Paese e di grandissimi uomini di stato come Helmut Kohl. Ma di fatto, in questa crisi cominciata nel 2008 c’è stata una forte crisi di domanda dappertutto, ma la Germania l’ha accusata molto meno degli altri Paesi perché ha una domanda interna che conta relativamente meno rispetto a quella esterna. In sintesi: la Germania ha cominciato a beneficiare veramente dell’ingresso nell’euro soltanto con la crisi mondiale e per motivi che hanno a che fare con la natura stessa della sua economia, improntata alle esportazioni, più che con i vantaggi o gli svantaggi dell’euro. L’unico fattore strutturale che vedo è che la Germania ha adottato una politica di competizione al ribasso, abbassando i salari. E così si è resa più competitiva».
E l’America?
«L’America si è rivelata molto più efficiente nell’uscire dalla crisi: appena questa si manifestò, ormai dieci anni fa, aprì immediatamente anziché chiudere i cordoni della borsa pubblica, ricapitalizzando banche, grandi aziende, società finanziarie (con la sola eccezione della Lehman Brothers). Il risultato è stato che il circuito virtuoso della Germania che ha portato alla ripresa si è messo subito in movimento, le istituzioni che lo Stato aveva finanziato si sono riprese così bene da restituire anzitempo i fondi con gli interessi tanto che il governo alla fine ci ha guadagnato. E l’America vive adesso l’ottavo anno di ripresa, una ripresa e una fiducia che neanche le controversie che circondano la Presidenza Trump sono riuscite a scalfire».
Quale dei punti del programma del Presidente Usa la convince di più?
«Meglio dire probabilmente quali saranno realizzabili. Ora, non vedo molti spazi vista la conflittualità esistente nel Congresso addirittura fra gli stessi repubblicani, per il ribasso fiscale che Trump aveva promesso. Più possibile, sempre che si riesca ad avviare meccanismi efficaci di compartecipazione pubblico-privato, mi sembra la parte del programma che parla di infrastrutture. Trump ha promesso centinaia di miliardi in opere pubbliche, e le necessità reali parlano per lui: ponti, ferrovie, strade, in America hanno livelli di obsolescenza spaventosi. L’uragano Harvey quest’estate ha avuto conseguenze disastrose perché a Houston non funzionava il sistema vetusto e insufficiente di fogne e canalizzazione delle acque, e la Florida con Irma ha passato guai analoghi. Peraltro, mi consenta di tornare sulla Germania: anche a Berlino gli economisti più avveduti si sono resi conto che a forza di non voler fare debiti - e quindi non finanziare le opere pubbliche - anche lì le infrastrutture sono carenti.
Tutto questo ritardo è dovuto all’eccessiva paura di indebitarsi per un bilancio pubblico che ormai è in surplus da qualsiasi lato lo si guardi: avanzo commerciale, avanzo dello Stato, attivo di bilancia dei pagamenti. In America per fortuna non esiste una pregiudiziale così rigida sui debiti, e l’accordo fra Repubblicani e Democratici per l’allargamento dei termini del budget pubblico conferma questa volontà di realismo. Insomma, la speranza è che loro riescano ad accendere i lampioni giusti».