Usa, infrastrutture e dollaro forte

Nouriel Roubini Intervista esclusiva a We Build Value INTERVISTA A NOURIEL ROUBINI, PRESIDENTE DI GLOBAL ECONOMICS

Nouriel Roubini, il docente della New York University diventato celebre nel mondo per essere stato uno dei pochi economisti a prevedere la grande crisi del 2008 segnalando che stava per scoppiare in America una bolla finanziaria, dopo tanti anni è moderatamente ottimista per il 2016, «sempre che – precisa subito – non intervengano nuovi sciagurati atti di terrorismo a deprimere ulteriormente gli animi dei cittadini, sia in Europa che in America».

Quale sarà il traino 2016 dell’economia Usa?

«Un importante contributo potrà darlo il grande piano per le infrastrutture che il Presidente Obama sta lanciando in queste settimane e che andrà avanti ben oltre la fine del suo mandato. Il piano fornirà un supporto molto importante agli investimenti e all’occupazione, e poi risolverà alcuni annosi problemi connessi con il pessimo stato di conservazione di molte strade, ponti, viadotti, dighe».

In cosa consiste il piano?

«Secondo il programma lanciato dal Presidente degli Stati Uniti, da quest’anno e per i prossimi sei anni, saranno investiti 478 miliardi di dollari per modernizzare autostrade, ponti e in generale il sistema dei trasporti americano. Questo programma di investimenti si somma al budget di 301 miliardi di dollari messo a disposizione dalla Casa Bianca nel 2015 sempre per il rinnovamento del sistema infrastrutturale del Paese».

Brickell City, Miami, Florida

Quali saranno gli impatti del piano sull’economia americana?

«L’impatto più importante si avrà sicuramente sul mercato del lavoro. Il piano garantirà infatti la nascita di migliaia di posti di lavoro per operai, ingegneri, architetti contribuendo a ridurre ulteriormente il già basso tasso di disoccupazione. Inoltre i finanziamenti pubblici serviranno anche a favorire una maggiore disponibilità a investire da parte dei privati dando vita a quella che è stata chiamata Rebuild America Partnership (una partnership per ricostruire l’America)».

Le imprese private faranno tesoro di questi aiuti?

«Le aziende hanno già ricominciato a investire con convinzione, spinte anche dai ribassi dei costi energetici. Ora il petrolio è sceso in tutto il mondo, e anzi tanti produttori di shale oil americano sono andati in crisi, però per tanti anni non è stato così e le aziende americane hanno preso un grande vantaggio dal fatto di disporre di energia a basso costo. A questo si affianca la solidità conseguita dal sistema finanziario, molto più stabile adesso per i diversi provvedimenti di regolamentazione e controllo introdotti dopo la crisi del 2008, e anche i consumi interni sono finalmente ripresi. Tutto questo ci fa essere ragionevolmente ottimisti su tutto il 2016, sia dal punto di vista delle Borse che dell’economia reale».

Negli Stati Uniti l’attenzione sembra piuttosto concentrarsi sulla Federal Reserve, che per la prima volta dopo dieci anni sta impostando un cammino al rialzo dei tassi.

«Non mi sembra un grande pericolo per un’economia che è tornata, e da diversi anni, forte e solida, e oggi marcia finalmente all’altezza del suo potenziale, sul 2,5-3% di crescita per il 2016, in lieve aumento rispetto al 2015. C’è una differenza sostanziale con quanto accadde nella primavera del 2013, quando per la prima volta irruppe sui

mercati la notizia del famigerato “tapering” da parte della Federal Reserve, cioè l’intenzione di chiudere il quantitative easing e contemporaneamente rialzare i tassi. Allora l’annuncio prese tutti di sorpresa e causò un mini-crollo delle Borse, ma dove le sue conseguenze furono più sentite fu presso i mercati emergenti, che cominciarono proprio in quell’occasione la loro lunga marcia al ribasso che ancora continua. Il rialzo del dollaro che entrambe le notizie annunciate dalla Fed hanno provocato, che continua ancora oggi, se per gli europei è una buona notizia, è invece disastrosa per le economie emergenti perché il loro bilancio stesso è basato sull’indebitamento in dollari».

Ma in tutto questo non avrà nessuna conseguenza il rialzo dei tassi?

«No, perché i mercati a differenza del 2013 hanno avuto tutto il tempo di prepararsi e di “scontare” il rialzo, che a questo punto è dovuto perché i tassi non possono restare in eterno vicini allo zero. In ogni caso, è una misura minima: dopo lo 0,25% di dicembre, dovrebbero aversi altri due provvedimenti identici in aprile e settembre del 2016. Come vedete, un rialzo molto graduale e calibrato che non avrà effetti sul mercato».

Wall Street

Ma cos’è che ha indotto la Yellen a rompere finalmente gli indugi e a dare il via ai rialzi?

«Come sapete la Fed ha un doppio mandato, di sovrintendere all’inflazione ma anche allo sviluppo e all’occupazione. E Janet Yellen è particolarmente sensibile a quest’ultimo punto. I 211mila posti creati in novembre hanno finito di convincerla: il mercato del lavoro sta funzionando a dovere, il tasso di disoccupazione – di poco superiore al 5%, la metà di quello europeo – è a livelli fisiologici praticamente da piena occupazione, quindi non c’è motivo per non rialzare i tassi. Né vale l’obiezione di quanti sostengono che la disoccupazione vera è più alta perché le statistiche non considerano quanti hanno smesso di cercare lavoro, né quella di chi ritiene che la produttività sia così bassa che è diventato necessario assumere per produrre la stessa quantità di beni. Sono tutte osservazioni inesatte».

Però l’inflazione non ha ancora raggiunto il 2% previsto.

«Bisogna guardare alle tendenze pluriennali, che ci dicono che entro un quinquennio, un termine ragionevole, l’obiettivo sarà conseguito. L’Europa è molto più indietro e il problema della deflazione è ancora molto lontano da una soluzione».