Cantiere Europa: l’ora del Piano Juncker

Daniel Gros Intervista esclusiva a We Build Value INTERVISTA A DANIEL GROS, DIRETTORE DEL CENTRE FOR EUROPEAN POLICY STUDIES

«Il 2016 è l’anno del Piano Juncker, il più grande progetto infrastrutturale mai varato in Europa. Il problema è che come in tutte le vicende comunitarie i tempi sono piuttosto lunghi». Daniel Gros, l’economista tedesco che ha studiato in Italia (è laureato alla Sapienza di Roma), si è specializzato in America, è stato consulente del Fondo Monetario Internazionale e oggi dirige il CEPS (Center for Economy Policy Studies) di Bruxelles, è allo stesso tempo entusiasta e preoccupato: «Il Piano Juncker da 315 miliardi di euro destinato a risolvere la cronica carenza di investimenti in Europa, vista come causa prima della stagnazione economica che interessa tutto il continente, annunciato il 26 novembre 2014, fatica a partire».

Però le burocrazie comunitarie hanno i loro tempi…

«Qui vengono troppo allungati. L’Ecofin ha approvato il Piano Juncker il 17 febbraio. La Commissione ha varato il sofferto emendamento al bilancio per finanziarlo l’8 maggio. La Banca Europea degli Investimenti (BEI), che sarà il braccio operativo del Piano, ha sottoscritto ufficialmente l’accordo con la Commissione il 20 luglio. Lungo tutta l’estate ha preso il via l’European Fund for Strategic Investments (EFSI), il fondo affidato materialmente alla BEI. Ora finalmente, all’inizio di quest’anno dovrebbe diventare operativo. Certo, parte con un carico non indifferente di perplessità e distinguo, ma insomma vale la pena di vedere di cosa si tratta».

Però la missione di rilanciare gli investimenti infrastrutturali è meritoria. Come andrà a finire?

«Tutti speriamo bene. Negli ormai otto anni dall’inizio della crisi finanziaria gli investimenti, fra pubblici e privati, sono scesi del 20% in Italia, del 45% in Spagna, del 18% in Olanda e del 17% nella media europea. Nella stessa Germania, malgrado il vistoso surplus, non sono aumentati più del 4%, e del 2% in Francia. Nel complesso, secondo i calcoli della commissione Ue, la perdita di investimenti è stata pari a 550 miliardi di euro fra il 2007 e il 2014. Erano anni che si chiedeva un deciso intervento europeo. Il Piano che infine è stato varato probabilmente doveva essere di dimensioni maggiori visto che deve rilanciare gli investimenti e insieme colmare il gap infrastrutturale che esiste in tutta Europa, Germania compresa. E poi doveva essere accompagnato da una serie di disposizioni per integrare mercati quali l’energia, i trasporti, le telecomunicazioni. Tutti settori che continuano ad avere regole e specifiche diverse nei vari Paesi, il che complica la possibilità di investimenti transnazionali».

Ma quali sono le reali dimensioni del progetto?

«La cifra ufficiale è di 315 miliardi di euro in tre anni, ma il fondo di dotazione non supera i 21 miliardi, 16 dal bilancio Ue e 5 da quello della Banca europea degli investimenti, che avrà il ruolo operativo di tutta l’operazione. A regime, il Piano Juncker costituirà un quarto delle attività della BEI (80 miliardi di euro di finanziamenti nel 2014), presso la quale il fondo ESFI di cui si parlava all’inizio è “alloggiato”. La chiave è l’effetto-leva. Tutti gli investimenti saranno cofinanziati pubblico-privato e per una lunga lista di progetti che altrimenti non sarebbero potuti partire per carenza di finanziamenti privati si confida nel fatto che gli imprenditori siano incoraggiati dall’essere in compartecipazione con la BEI. Per di più questa garantisce la “prima perdita”: se il progetto va male la BEI coprirà le perdite fino all’ammontare del suo intervento».

Stazione Francoforte

Insomma, qual è il suo giudizio sull’iniziativa?

«Ci sono diversi motivi per essere scettici, questo non sarà lo sperato “Growth Pack”, però il cambiamento di direzione rispetto all’ortodossia di marca tedesca che vedeva nel rigore di bilancio l’unico parametro di riferimento, è rimarchevole. Se il Piano riuscirà, sarà uno dei pilastri della ripresa europea a fianco dell’Unione bancaria, delle misure monetarie della Banca centrale europea e della Capital markets union che è in preparazione. Né va sottovalutata la scossa per l’efficienza: in diversi Paesi europei fra cui l’Italia, solo metà degli investimenti sostenuti nel settore pubblico si traduce in accumulazione di asset produttivi a causa di inefficienze, sprechi, corruzione e criminalità organizzata».