La ricetta per una crescita sostenibile

Intervista a Jeffrey Sachs

Il 2015 sarà ricordato come l’anno di svolta nei grandi investimenti infrastrutturali. Tutte le grandi opere varate nel corso del 2015 hanno avuto la sostenibilità finanziaria e ambientale al primo posto fra le priorità. A luglio la grande convention dell’Onu ad Addis Abeba ha messo a punto gli strumenti finanziari in grado di dare una spinta decisiva a questo tipo di investimenti responsabili».
Jeffrey Sachs, 60 anni, è il più prestigioso “economista dello sviluppo” del mondo. Attualmente dirige l’Earth Institute della Columbia University ma infaticabilmente da anni e anni gira per ogni angolo del pianeta per aiutare i governi e le corporation innanzitutto a rimettere a posto le loro finanze e poi ad impostare progetti di infrastrutturazione di base che rispondano a criteri di efficienza, risparmio energetico, capacità di diffondere benessere.

Negli anni è stato consulente dei governi di Bolivia, Estonia, Polonia, Russia e di una ventina di Paesi africani, e tutti hanno fatto grazie anche al suo intervento un salto di qualità nella capacità infrastrutturale. Oggi è consulente speciale del segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon per l’iniziativa Millennium Development Goals rivolta a ridurre l’estrema povertà, le malattie e la fame che flagellano ancora ampie parti del mondo.

Il suo ultimo libro, pubblicato in America a fine dicembre 2014, si intitola “The Age of Sustainable Developments”, l’era dello sviluppo sostenibile, e coniuga i principi squisitamente finanziari con quelli della responsabilità sociale e ambientale. Economista di pura scuola keynesiana, allievo di Paul Samuelson al Mit di Boston, Sachs ha interessi molto ampi, e si sta tra l’altro impegnando molto nella campagna mondiale contro i cambiamenti climatici.

In che modo è possibile conciliare la crescita industriale con le esigenze di uno sviluppo responsabile?

«Pensare ad uno sviluppo responsabile non significa solo costruire centrali solari, eoliche o geotermiche al posto di quelle tradizionali a carbone o idrocarburi, ma tener presenti le esigenze a 360 gradi dell’umanità, che sono esigenze di sicurezza, di realismo finanziario, di affidabilità complessiva.

Anche per costruire un ponte ci sono tanti modi: noi spingiamo perché si adottino quelli più sicuri, meno distruttivi per l’ambiente, più efficaci pensando al lungo termine. In questo quadro si inserisce la proposta per la generalizzazione a tutti i Paesi industrializzati della “carbon tax”, in grado di creare un bacino di denaro fresco presso i governi, destinato a finanziare infrastrutture di nuova generazione».

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La ricetta per una crescita sostenibile
Professore, ci illustra questo progetto?

«È un progetto che è già realtà in molti Paesi. L’idea di fondo è semplicissima: tassare le emissioni di anidride carbonica, provenienti per lo più da impianti funzionanti a petrolio ma anche in misura leggermente minore da quelli a gas, e con i profitti finanziare il rinnovo del parco infrastrutturale. Non è uno scambio in perdita, anzi».

Ma come dovrebbero essere canalizzati questi proventi fiscali dei Paesi per finanziare nuove infrastrutture?

«I Paesi più ricchi e industrializzati del pianeta hanno promesso di investire in infrastrutture di nuova generazione specialmente nei Paesi in via di sviluppo, cento miliardi di dollari l’anno a partire dal 2020, un grosso salto rispetto ai 25-30 miliardi di ora.

Le nuove entrate provenienti dalla carbon tax costituirebbero una piattaforma finanziaria ideale per onorare tale promessa. Si tratta di finanziare un mondo più vivibile, con meno catastrofi naturali ma anche finanziarie, nel quale l’accesso a beni e servizi fondamentali, dai trasporti all’energia, è il più diffuso possibile».

Gli stessi criteri di ingegneria finanziaria, in senso buono, li applica anche all’altra sua iniziativa, quella del Millennium Development Goals?

«Certo, non potrebbe essere diversamente. Con questo progetto, lanciato nel 2000 dall’allora segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, al cui fianco ho lavorato impostando i parametri tecnici, ci prefiggiamo come sapete di sconfiggere fame e malattie nei Paesi più poveri del mondo. Anche qui è fondamentale il problema delle infrastrutture e del loro finanziamento. Vuole saperla una cosa? In tutti questi anni non sono riuscito ancora a capire perché quando parliamo di sanità piovono contributi a pioggia e gestiamo letteralmente fondi di miliardi di dollari, ma incontriamo enormi difficoltà quando invece parliamo di scuola di base, di educazione primaria: un problema che forse non è importante come la salute, anche perché qui si parla di differenza fra la vita e la morte, ma secondo me non meno cruciale.

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Probabilmente c’è da considerare anche il supporto delle ricchissime compagnie farmaceutiche che hanno tutto l’interesse ad espandere i loro mercati, ma mentre per costruire un ospedale non abbiamo problemi finanziari per costruire una scuola, un laboratorio, anche un palestra, nonché per formare gli insegnanti, i problemi sono giganteschi. Eppure quando non riusciamo a formare adeguatamente un bambino in Nigeria, ce lo troveremo pochi anni dopo fra le file di Boko Haram».

Se è vero che gli Stati riducono i finanziamenti anche a causa dei problemi di debito interni, qual è invece l’atteggiamento delle grandi corporation private verso questi temi?

«Per fortuna sempre più spesso troviamo aziende private che accettano partnership finanziarie con noi. Con il gigante delle telecomunicazioni Ericsson, per esempio, abbiamo lanciato “Connect to Learn” per l’insegnamento online negli sperduti villaggi dell’Africa. Ma è un progetto limitato: dobbiamo fare un salto di qualità perché non possiamo più assistere solo qualche centinaio di bambini quando milioni e milioni hanno bisogno del nostro aiuto. Capite perché c’è bisogno di un impegno costante e continuo?».