Un’ Europa più unita, che sappia superare lo spettro del debito per tornare a investire nelle infrastrutture strategiche, partendo magari dalla stagione riformista inaugurata dal nuovo Presidente francese Emmanuel Macron. È questa la via di fuga all’impasse economico e politico che sta rallentando la crescita del Vecchio Continente secondo Ludovic Subran, classe 1981, inserito nel 2012 dall’Institut Choiseul, un prestigioso think tank, e dal giornale “Le Figaro”, nella lista dei 100 leader di domani dell’economia francese.
A poche settimane delle elezioni e a pochi giorni dalla vittoria in Parlamento, quale Europa si trova davanti il nuovo Presidente Macron?
«Un Continente che ha delegato molte delle scelte, anche politiche, alla BCE, al punto che la Banca Centrale Europea adotta oggi una politica monetaria più redistributiva della ricchezza di quanto non facciano i singoli stati. Di fronte ad un’Europa tecnocratica gestita da Bruxelles, la BCE ha dovuto fare più di quanto previsto dal suo mandato per aiutare paesi e consumatori. Il problema adesso è dare una leadership politica a questa Europa che sembra irrimediabilmente divisa – lasciatemi passare la metafora – tra paesi che bevono birra (quelli dell’area Nord n.d.r.) e paesi che bevono vino (quelli dell’area Sud n.d.r.).
Le elezioni francesi hanno dimostrato che i giovani vogliono più spirito in questa Europa, dare un altro futuro, cambiare percezione e mettere fiducia. Si spera molto in Macron perché la sua Francia dia un contributo maggiore ad un’Europa dei progetti e non delle regole. Una sfida difficile perché l’Europa di oggi appare più divisa che mai e con grandi problemi da affrontare, come la disoccupazione giovanile o la frammentazione finanziaria con paesi con crediti molto bassi e altri più alti».
La vittoria di Macron sembra aver rafforzato l’asse franco-tedesco. Cosa dobbiamo aspettarci in tema di investimenti?
«Sugli investimenti c’è un dibattito in corso, in particolare per quanto riguarda l’enorme surplus commerciale tedesco. Alcuni vedono questo surplus come una ricchezza ferma, un deficit di investimenti, mentre altri sono convinti che sia una riserva da preservare e che non va bruciata. La conseguenza è che in Germania c’è un gap enorme di investimenti, sia pubblici che privati. I salari sono troppo bassi e c’è bisogno di una redistribuzione, ma è un discorso molto difficile da affrontare perché il governo tedesco e parte dell’opinione pubblica non vuole bruciare il suo salvavita, rappresentato dal surplus. Questo atteggiamento ha un impatto negativo sull’export di altri paesi europei, sulla politica monetaria della BCE. Infatti la crescita tedesca rimane comunque molto bassa, senza produttività e senza innovazione forte, in più è un peso per lo sviluppo degli altri paesi della zona».
Parlando di economia mondiale, quale sarà la tendenza generale nel 2017 e nel 2018?
«Le nostre previsioni indicano un Pil mondiale in crescita del 2,9% tanto nel 2017 quanto nel 2018. Gli Usa non brilleranno perché, sebbene l’elezione di Donald Trump abbia risvegliato l’economia americana dal suo letargo, i rischi rimangono elevati. Il Pil del Paese dovrebbe infatti crescere nell’anno del 2,3%, contro l’1,7% dell’eurozona e il 6,3% della Cina. Ma se gli Usa non torneranno a spingere con forza la loro economia, allora sarà quasi impossibile che l’economia mondiale torni a crescere oltre il 3%».
Che effetti hanno le politiche protezioniste annunciate da molti Paesi?
«In realtà il tema delle protezioni al commercio internazionale sono solo parole, nel senso che il protezionismo esiste da sempre ed esisterà per sempre. Più grave è invece l’isolazionismo, che è un fenomeno prima politico che economico. Se gli Usa rispetteranno i loro annunci nel senso che renderanno la vita difficile alle multinazionali straniere che cercano un accesso al mercato americano, allora ci saranno problemi anche per l’economia europea. Per il momento però la politica del Presidente Trump sembra soprattutto improntata ad ottenere un effetto positivo per le imprese americane all’estero e non per bloccare quelle internazionali che sbarcano negli Usa».
Uno degli annunci più sensazionalisti di Trump è stato il trilione di dollari per le infrastrutture. Qual è la posizione dei principali leader europei sul tema? L’Europa è pronta per un grande piano del genere?
«L’Europa ha già il suo piano infrastrutturale che è il Piano Juncker. Spesso si è parlato di prevedere la destinazione di un livello minimo di Pil alle spese infrastrutturali, ma in tempo di austerità è risultata un’ipotesi impossibile da realizzare. Quindi per il momento all’Europa non resta che il Piano Juncker, mentre la risposta asiatica all’annuncio di Trump è la Asian Infrastructure Investment Bank e il progetto “One belt, One road” lanciato dalla Cina.
L’unica problema è che, rispetto a Stati Uniti e Cina, il nostro piano è più annacquato, nel senso che come dimensioni è una miniatura, la piattaforma c’è ma le risorse sono insufficienti. Inoltre, a livello burocratico, ci mettiamo troppo tempo per accordarci, abbiamo tanti obiettivi divergenti e alla fine la soluzione è un miscuglio di tutto che non ha un effetto di segnale e fiducia che c’è negli altri Paesi quando viene lanciato qualcosa del genere».
Recentemente ci sono state alcune polemiche sul Piano Juncker, che criticavano il fatto che il progetto non sta veicolando gli investimenti ipotizzati inizialmente. Questo corrisponde al vero?
«La questione alle spalle del Piano Juncker riguarda la disponibilità europea, tanto dei governi quanto anche dei soggetti privati, a fare investimenti. Nel continente siamo tutti ossessionati dal debito e gli investitori non vogliono ripiombare in un incubo come quello della Grecia. I progetti pubblici-privati ci sono, ma nessuno vuole accollarsi nuovo debito.
Oltre a questo, esiste un’asimmetria di investimenti tra vari paesi europei. In Francia, ad esempio, la Bei (Banca europea degli investimenti) ha avviato diversi progetti con la Cassa depositi francese, mentre in Italia questa collaborazione non ha mai portato risultati soddisfacenti, quindi sono poche le PMI italiane che hanno beneficiato di investimenti europei. Non c’è stato impatto d’accelerazione molto forte. Sono mancati grossi e ambiziosi progetti anche infrastrutturali come quelli che hanno segnato gli anni ’90, perché alle spalle è diffusa la paura che i progetti costeranno tanti soldi. In sostanza, la capacità del piano non è stata utilizzata…».
L’Europa lavora da anni ad un progetto di collegamenti transnazionali, la cosiddetta rete TEN-T. A che punto è questo progetto e che tipo di impatto potrà avere sulle infrastrutture?
«Il progetto TEN-T è molto interessante ma non sufficiente, perché i progetti sono spezzettati e limitati di numero, e risulta sempre molto difficile prendere decisioni congiunte tra più stati coinvolti dallo stesso progetto».
Molti paesi, tra cui recentemente la Spagna, chiedono l’istituzione degli eurobond. Potrebbero essere utili per lo sviluppo del continente? Macron ha già detto che non sono una priorità…
«Sugli eurobond Macron ha detto non dobbiamo mutualizzare il passato ma il futuro. Il problema è recuperare il debito pubblico greco, e tra poco anche del Portogallo e dell’Italia. È per questo che il gap di investimenti non riesce ad essere colmato, la paura del debito è forte e anche tante aziende non si indebitano perché hanno paura di essere risucchiate nel rischio Paese.
L’eurobond può essere utile per reperire liquidità ma non cambierà il rischio reputazionale del continente, che è alla base dei nostri problemi. L’unica soluzione possibile è la fiducia».
Guardando al domani, come sarà secondo lei la Francia di Macron?
«Il 2017 per la Francia si presenta come un anno di grande cambiamento, e si diffonde quel fermento che si respirava alla fine degli anni Novanta nella Germania di Gerhard Schröder
e nell’Inghilterra di Tony Blair. Questo perché il nuovo Presidente ha confermato l’intenzione di voler fare le riforme che non sono state fatte negli ultimi sette anni con l’obiettivo di rendere più competitiva e attrattiva la Francia. Vuole rivedere il mercato del lavoro, il sistema di protezione sociale, dare più competizione tra i settori, e abbassare le tasse alle aziende. A guardarlo così è un programma di liberazione delle energie, ma se queste riforme non saranno condivise da tutti i Paesi europei che ne hanno bisogno, alla fine ci sarà sempre qualcun altro che paga».