L’Europa investa nelle infrastrutture

Intervista esclusiva a Joseph Stiglitz

«Il tema delle infrastrutture è centrale per promuovere lo sviluppo, per ridurre le diseguaglianze, per valorizzare i legami fra i popoli. È un tema che può anche diventare un strumento di potere e che per certi aspetti ricorda l’approccio dell’Impero Romano: una leadership affermata costruendo ponti strade e acquedotti, infrastrutture «fisiche» che diventano legami permanenti tra i popoli». Joseph Stiglitz, economista della Columbia University, premio Nobel nel 2001, conosce bene l’Europa e nel 2016 ha scritto il libro «L’Euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa».

«In Europa – spiega – la crescita negli ultimi due anni è tornata. Ma è debole e troppo diseguale fra un Paese e l’altro. Per cui ha fatto benissimo Draghi a resistere alle pressioni e confermare la sua politica monetaria, anche se in controtendenza con quanto sta facendo oggi la Fed».

Insomma professore, diciamo che l’Europa non sta ancora molto bene…

«Il segnale della febbre è l’inflazione, che tende ancora una volta al ribasso. Quel che è peggio proprio nella sua componente depurata dei prezzi dell’energia considerati volatili».

Vuol dire che non è colpa del petrolio che volge nuovamente al ribasso se l’inflazione torna a scendere?

«Esatto. La causa va ricercata nei salari che non accennano a salire, neanche in Germania, e nei consumi deboli in tutta l’Eurozona. Gli unici che potrebbero fare qualcosa sono proprio i tedeschi, che si oppongono alle misure monetarie approntate per bilanciare una situazione creata da loro. Comunque, prima che il Presidente della BCE, Mario Draghi, agisca bisogna aspettare le elezioni tedesche: a fine anno ci sarà la verifica, che però non sarà definitiva perché mancheranno i risultati delle elezioni italiane di primavera. Con tutte le incognite connesse a ciascuno di questi appuntamenti».

Per il momento cosa si dovrebbe fare per aiutare l’economia?

«Il Paese che può intervenire resta la Germania. Tre opzioni: alzare i salari, diminuire le tasse, due misure che migliorerebbero i consumi, oppure lanciare un grande programma infrastrutturale comprensivo di una serie di partnership pubblico-privato, che avrebbe il vantaggio di riassorbire un surplus dei pagamenti, che ha superato l’8% del Pil, un livello insostenibile. Una o più di queste misure rilancerebbero l’economia tedesca e rialzerebbero l’inflazione per il meccanismo di domanda/offerta di lavoro, con un positivo effetto-contagio per l’Eurozona».

Alzare i salari è possibile per lo stesso motivo?

«Sì. Non lo fanno perché non lo chiedono i sindacati, che preferiscono essere rassicurati sulla stabilità del posto piuttosto che sulla redditività. Gli stipendi sono già piuttosto buoni, è vero, ma è una questione di mentalità. La stessa che ha imposto l’austerity all’Europa accentuando la recessione. I conti in ordine prima di tutto. Misure innovative costituirebbero l’equivalente delle riforme strutturali chieste all’Italia: le une e le altre servono a non lasciare sola la Bce»

Victoria Station, Londra
Le riforme in Italia vivono una lunga battuta d’arresto dopo che è stata bocciata la madre di tutte le riforme, quella costituzionale…

«Nel frattempo si può lavorare sotto altri fronti. Intanto con il miglioramento della finanza pubblica, dove l’Italia mi risulta che stia procedendo abbastanza bene. E poi cercando disperatamente di fare investimenti infrastrutturali dove possibile: per esempio, è buono che l’Italia stia utilizzando il Piano Juncker, che dà luogo a investimenti in parte scorporabili dai calcoli sui parametri di Maastricht. Un trattamento che potrebbe essere riservato anche ad altri investimenti ancora: è la vecchia idea lanciata per primo dall’ex-primo ministro italiano Mario Monti e tante volte rilanciata, ed è ancora possibile perseguirla, perché il costo del denaro è basso. Il problema è che non si può abusare della flessibilità così ottenibile. All’Italia sono state fatte ampie aperture».

Però ci sono anche ostinate chiusure, dall’Unione Bancaria agli Eurobond. 

«Qui non vedo la possibilità di vincere le resistenze tedesche, nenche se alle elezioni dovesse vincere Schulz o comunque l’Spd rafforzarsi. Sarà difficile convincere i tedeschi, ossessionati dalla paura di dover risanare qualche banca straniera, a completare il quadro dell’Unione Bancaria con l’assicurazione comune sui depositi. Il risultato è il prolungamento della crisi delle banche europee. Non basta: i tedeschi chiedono di sganciare i bilanci bancari dal debito pubblico, il che per l’Italia è irrealistico. E per gli Eurobond, anche senza coinvolgere lo stock di debito preesistente, la posizione è analoga. Peccato perché potrebbero dare un contributo decisivo proprio ai progetti infrastrutturali paneuropei di cui si avverte il maggior bisogno. Purtroppo questa è la realtà».

Un’ultima domanda inevitabile riguarda il suo Paese. Lei è stato estremamente critico con Trump.

«Dal punto di vista economico presenta delle debolezze, ma il maggior punto di forza è proprio il programma infrastrutturale, purché lo finanzi con fondi davvero pubblici, a costo di aumentare temporaneamente il debito pubblico, un problema che l’America è abbastanza forte per affrontare. L’importante è che non congegni il finanziamento con partnership pubblico-private dalle quali avrebbero da gaudagnare solo persone a lui vicine. Il maxi progetto da mille miliardi di infrastrutture è in teoria buono: il Presidente propone di finanziarlo per quasi un quarto con una tassa sul rientro dei capitali, che era stata per la verità un’idea di Hillary Clinton. Bisognerà anche vedere come proseguiranno i rapporti con la Cina, perché se in parte, come dicevo, bisognerà finanziarlo con buoni governativi, questi saranno da piazzare soprattutto in Oriente. Per ora, a parte le stravaganze della Corea del Nord, gli incontri con il Presidente cinese sono andati abbastanza bene, la «chimica» fra i due sembra ragionevolmente positiva, e Trump ha concesso una moratoria di 100 giorni sulle misure protezionistiche. Bisogna seguire con attenzione la nuova fase in cui entra il progetto «One Belt, One Road», il titanico investimento in infrastrutture che la Cina offre ai suoi vicini e partner commerciali, centinaia di miliardi dal Pakistan fino all'Europa. Staremo a vedere».