Infrastrutture per abbattere le barriere

Intervista esclusiva a Richard Baldwin

«Il grande business mondiale delle infrastrutture è quintessenziale al concetto stesso di globalizzazione, cioè il fenomeno economico di gran luna più importante dei tempi attuali». Richard Baldwin, inglese di nascita, studi in economia al Massachussetts Institute of Technology sotto la guida di Paul Krugman, è considerato uno dei maggiori esperti mondiali sui temi della globalizzazione, delle politiche (e delle controversie) commerciali, sui flussi finanziari internazionali. Proprio i temi cruciali per capire come va il mondo.

Professore, le infrastrutture sono insomma funzionali alla globalizzazione?

«Le dirò di più. C’è un momento storico preciso da tener d’occhio. Verso la fine dell’800, fra la prima e la seconda rivoluzione industriale, la Gran Bretagna cominciò a dotare tutti i Paesi del suo immenso impero coloniale, dal Kenya alla Nuova Zelanda, dall’India al Canada, da Hong Kong all’Australia, di potentissime infrastrutture. Di colpo gli inglesi si scatenarono con ferrovie, ponti, dighe, strade, tutto quanto poteva servire a consentire ai Paesi di fare uno strappo in avanti in tema di sviluppo industriale. L’operazione fu studiata scientificamente e accuratamente: le banche inglesi furono autorizzate ad emettere tutte le linee di credito necessarie per consentire queste costruzioni, e furono intanto avviati massicci corsi di riqualificazione per le popolazioni per agevolare il passaggio di masse ingenti di persone dall’agricoltura alla fabbrica. Ma, ecco la ciliegina: parallelamente, i britannici eressero una serie di barriere doganali esterne per proteggere la competitività dei manufatti inglesi e perché si creasse un poderoso interscambio che però non si allargasse al di là dei “canali interni” al grande impero. Tutto questo meccanismo funzionò alla perfezione per quasi un secolo. Poi arrivò la decolonizzazione e queste barriere caddero una ad una».

Però le infrastrutture rimasero, ed è questo che distingue i colonizzatori inglesi. È così?

«Più o meno sì. Anche i francesi, su scala minore, fecero qualcosa di simile. Finite le colonie, restarono le infrastrutture e il personale per gestirle. E questo funzionò, devo dire, nella maggior parte delle ex-colonie. Fece eccezione qualche Paese africano, dove spesso i conflitti interni agli stati ebbero un effetto negativo sulla gestione delle infrastrutture, ma anche in questi casi dopo qualche tempo si è recuperato. In Africa, in Uganda per esempio, sono state rispolverate (letteralmente) le stazioni ferroviarie del tempo degli inglesi, e riattivate le linee ferrate. E così in molti altri Paesi. Certo, il poter disporre delle infrastrutture non garantiva automaticamente un posto al sole per tutte queste economie, ma per fortuna negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale hanno fatto, e continuano ancora a fare, la loro parte aiutando i Paesi dal punto finanziario e aiutandoli anche a costruirsi un’architettura statale democratica».

Doha, Qatar
Venendo all’oggi, qual è il grado di libertà conseguito secondo lei dagli scambi mondiali, e quindi dalla possibilità che da questi scambi traggano vantaggio tutte le economie, da quelle emergenti a quelle mature?

«Sicuramente molto alto, anche se non perfetto. Recenti tensioni fra importantissimi Paesi dello scacchiere mondiale, basate in alcuni casi, va detto, su problemi esistenti anche se probabilmente gestiti in modo non ottimale, testimoniano che c’è qualcosa che non va. Però proprio il fatto di rendersi conto di questi problemi permette di studiarne una soluzione. Come diceva Soren Kerkegaard, “per capire la vita si deve guardare al passato, senza dimenticarsi però un principio ancora più importante: che si deve vivere guardando al futuro”. E ciò che dice la filosofia è assolutamente vero».

Il suo ultimo libro si chiama “La grande convergenza”. Di cosa si tratta?

«È il discorso che stavo facendo. Diciamo che è la tappa finale della globalizzazione, che è iniziata in sordina intorno al 1820 quando la rivoluzione industriale e la locomotiva a vapore portò al boom dei trasporti merci. Allora per la prima volta a Londra i miei progenitori provarono l’emozione di mangiare pane fatto con grano americano sorseggiando tea di Ceylon dolcificato con zucchero giamaicano su una tovaglia di cotone indiano. La seconda ondata di globalizzazione è come le dicevo quella della fine dello stesso XIX secolo, quella che portò al boom delle infrastrutture, e ne identificherei una terza intorno al 1990 quando la rivoluzione informatica abbatté i costi delle comunicazioni e del trasferimento di idee. Questa particolare fase della globalizzazione era stata preceduta da un periodo intermedio che segnò invece un piccolo arretramento. Successe intorno agli anni ’80 quando i costi commerciali caddero, l’industria si raggruppò nelle economie del G7 e dette inizio a un’intensa fase di innovazioni per favorire la crescita. Poiché il costo del trasferimento delle idee scese meno dei costi commerciali, le innovazioni rimasero lì dove venivano create, diciamo al nord. Poi la situazione si rovesciò ancora una volta grazie all’innovazione tecnologica: si poteva produrre all’estero coordinando dal quartier generale le attività. In questa fase si sono tuttavia alimentate anche molte diseguaglianze. Ora possiamo assistere alla fase successiva, quella appunto della grande convergenza, che è appena cominciata. L’ulteriore evoluzione dell’informatica porta i professionisti dei Paesi occidentali ad applicare i loro talenti su larga base: un ingegnere americano ripara una ferrovia in Sudafrica controllando i robot da remoto perché la telepresenza non è più fantascienza. I lavoratori collaborano da un capo all’altro del mondo. Se si accompagna una sana diffusione delle conoscenze si affrontano con più serenità i rapporti globali. E quelli interni».