Cambiamenti climatici, è tempo di agire

Intervista a Luca Mercalli, presidente della Società Meteorologica Italiana

Luca Mercalli

È un meteorologo, climatologo e divulgatore scientifico italiano. È presidente della Società Meteorologica Italiana, fondatore e direttore della rivista Nimbus, e uno dei maggiori esperti di clima in Italia.

 

L’Italia si trova oggi a dover affrontare l’ennesima siccità estiva, stavolta però i suoi effetti sembrano più drammatici degli anni precedenti…

«Quest’anno rischiamo di assistere alla siccità più intensa mai vissuta dall’Italia almeno da quando abbiamo i dati, quindi di sicuro da almeno 250 anni. I dati precisi li avremo a fine estate, quindi da settembre in poi ma da quello che si vede ora abbiamo tutte le premesse per un caso record».

 

Secondo lei dovremmo abituarci a vivere crisi come questa?

«Non è un secondo me, ma è un secondo l’intera scienza internazionale. Basta leggere i rapporti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Il rapporto dell’IPCC, il Comitato delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, continua a ripetere queste cose da trent’anni. Nel senso che gli scenari di riscaldamento globale purtroppo portano a questo genere di effetti, la temperatura aumenta in tutto il mondo e con essa aumentano i fenomeni estremi, che sia una siccità, un’alluvione, un tornado, un’ondata di calore africano come stiamo vivendo adesso. A questo si aggiunge il problema dell’innalzamento del livello dei mari che è dovuto al fatto che fondono i ghiacci dei grandi ghiacciai polari. Attualmente il mare sta aumentando di 4 millimetri all’anno su tutti gli oceani del mondo e anche questo andrà a influenzare le nostre scelte future».

 

Quanto costerà all’economia italiana questa crisi climatica?

«Costerà tantissimo perché questa siccità è iniziata addirittura nel dicembre del 2021, e sono ormai sono otto mesi che non piove. A questo si aggiungono le ondate di calore che rendono ancora più problematica la carenza di acqua. Ci vuole quindi programmazione per costruire le infrastrutture necessarie come dighe, acquedotti, reti idriche ed è una cosa che non si fa in un mese».

 

Ad alimentare il problema c’è in effetti la carenza nella tenuta della rete idrica nazionale e delle infrastrutture…

«Il fenomeno è complesso, non c’è mai una sola causa e la causa non è mai distribuita in modo omogeneo su tutti i territori. Sappiamo che gli acquedotti italiani sono mal ridotti, in media perdono il 38% dell’acqua però anche qui ci sono grandissime differenze territoriali. Al Sud ci sono acquedotti che ne perdono il 70%, al Nord magari ci sono intere zone che hanno degli acquedotti ormai risanati con perdite fisiologiche intorno al 15, 20%. In ogni modo è chiaro che gli acquedotti italiani hanno più di 100 anni e vanno rimodernati perché è assurdo, di fronte a questa scarsità di acqua, perderne la metà per via della rete idrica».

 

Cosa ci vuole per invertire questa tendenza?

«Principalmente la volontà politica di investire di più e con più lungimiranza su questo settore. Il tema climatico e le conseguenze del riscaldamento globale sono argomenti collettivi, ma sono ancora relegati a un dibattito tra tecnici».

 

L’Italia non è preparata a gestire questa crisi?

«Dobbiamo dire che l’Italia ha grandissima qualità e ottime infrastrutture. Il tema, nel nostro caso, è fare di meglio e soprattutto programmare con coscienza il futuro. Alla luce di questi grandi cambiamenti, la pianificazione del futuro non può essere la copia del passato,perché il cambiamento climatico ci cambia le condizioni del futuro, quindi bisogna prepararsi oggi non guardando nello specchietto retrovisore, perché quel passato che conosciamo non ci sarà più. Per progettare un’infrastruttura idrica, ad esempio, non possiamo guardare i dati sulle precipitazioni piovose di 30 anni fa, ma considerare cosa accadrà tra trent’anni. Questa è la vera sfida».

 

Cosa si aspetta dai player delle grandi opere?

«Il messaggio chiave secondo me è investire nella riqualificazione. La maggior parte del nostro lavoro di oggi nel settore delle costruzioni dovrebbe essere migliorare, riqualificare, restaurare, magari anche abbattere e rifare».

 

Per frenare i cambiamenti climatici è necessario porre un limite alla crescita?

«Dipende cosa intendiamo con parola crescita. Il suolo è facile da vedere come una risorsa limitata perché limitato dalla geografia. Ci sono dei limiti naturali che non possiamo superare.
Il limite non vuol dire che non progrediamo più, ma che usiamo altri indicatori per stabilire qual è il nostro progresso».

 

Ci aiuta a inquadrare con dati e analisi scientifiche l’evoluzione devastante dei cambiamenti climatici negli ultimi anni?

«La temperatura del pianeta è già salita di un grado nell’ultimo secolo ed è tanto per un intero pianeta: immaginiamo per il nostro corpo quando la temperatura sale di un grado abbiamo la febbre. Adesso gli scenari sono due. Il primo è quello più prudente cioè la rapida decarbonizzazione dell’economia, uscire dalle energie fossili e passare alle rinnovabili, rispettando le richieste dell’accordo di Parigi. In questo caso ce la faremo a stare dentro un aumento di due gradi entro la fine di questo secolo.
Il secondo scenario, ovvero il mancato rispetto degli accordi di Parigi, prefigura come conseguenza l’aumento della temperatura fino a cinque gradi entro la fine del secolo».

 

In Italia il crollo del ghiacciaio della Marmolata e le 11 vittime hanno riaperto il dibattito sugli effetti dei cambiamenti climatici. Possiamo considerarlo un altro segnale?

«Sicuramente il caldo è stato il fattore scatenante. Era da giorni e giorni che il ghiacciaio era a temperature sopra lo zero quindi c’era molta acqua che circolava, però possiamo dire che tutti i ghiacciai erano esposti alla stessa temperatura, quindi nel caso specifico della Marmolada si sono concentrate una serie di condizioni anche casuali. Direi che si è trattato di un caso isolato che per grande sfortuna è accaduto in un luogo e in un’ora molto frequentata.
Il discorso da fare quindi è più generale. Mentre stiamo parlando in Italia la quota della temperatura a zero gradi è sopra la vetta del Monte Bianco, questo significa che si sta sciogliendo la neve sulla cima del Monte Bianco, a 4.800 metri. Questo ci dice che nei prossimi cinquant’anni i ghiacciai sulle Alpi rimarrà un po’ di ghiaccio sopra il Monte Bianco e il Monte Rosa, il resto dei ghiacciai è destinato a sparire».

 

Cos’è l’overshoot day?

«L’overshoote day è il giorno dell’anno in cui gli abitanti della terra cominciano a consumare in credito, ovvero ad utilizzare più di quanto la terra possa fornirgli ogni anno. Oggi si dice che stiamo usando 1,7 terre, cioè più di una terra e mezza e questo 70% in più di terra che stiamo usando adesso è semplicemente un capitale che abbiamo dilapidato e che non avranno più le generazioni future».

 

Sul tema si alzano spesso le voci dei negazionisti? Come si fa a contrastarle?

«In realtà parliamo di pochi personaggi isolati che spesso nutrono interessi ideologici o economici. Il modo migliore per combatterli è non dar loro spazio dal punto di vista mediatico. Oggi più che mai la comunità scientifica dei climatologi è unita sull’analisi di quello che sta accadendo».

 

In che modo le aziende che costruiscono infrastrutture possono dare il loro contributo?

«Le infrastrutture hanno un grandissimo ruolo anche nella soluzione del problema climatico, perché sono opere che durano tanto tempo. Ci vogliono quindi energie e materie prime per realizzarle, tecnologie, rispetto della sostenibilità, riduzione massima del dispendio energetico, tanto nei modelli costruttivi quanto nell’uso di materiali. Per queste ragioni sono convinto che il settore delle costruzioni sia strategico, ovvero è dei settori che meglio di altri può adattarsi al cambiamento del domani».