Roma non è stata costruita in un giorno. E forse è questo uno dei segreti del suo patto con l’eternità. Un patto così solido che i suoi monumenti più rappresentativi, dal Pantheon al Colosseo, non sono più e solo simboli di un impero vecchio di oltre duemila anni ma diventano oggetti da studiare per rispondere a una delle domande più complesse dell’industria ingegneristica: esiste un materiale capace di sopravvivere al tempo?
A questa domanda stanno cercando di dare una risposta i ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, una delle università più prestigiose al mondo, e il loro punto di partenza è proprio lo studio dei materiali utilizzati dagli Antichi Romani per costruire opere come il Pantheon che ancora dopo oltre duemila anni mostrano una struttura solida e duratura.
Quegli stessi monumenti sono sopravvissuti non solo alla caduta di un impero ma anche a guerre, carestie, bombardamenti, saccheggi, in una parola al passaggio del tempo. E secondo i ricercatori del MIT – che hanno pubblicato nelle scorse settimane un approfondito studio sul tema – proprio le tecniche utilizzate per la mescola dei materiali sono una delle cause della loro durevolezza.
«Il Pantheon non esisterebbe senza il cemento dell’epoca romana», commenta Armir Masic professore di ingegneria civile al MIT e a capo degli autori dello studio.
L’analisi del calcestruzzo della Roma antica
Dal Pantheon a Boston i materiali con cui sono stati costruiti i monumenti dell’Antica Roma hanno viaggiato per migliaia di chilometri e sono finiti nei laboratori dell’Istituto di tecnologia del Massachusetts dove i ricercatori hanno analizzato la composizione di quel cemento che – come profetizzato al tempo dal filosofo Plinio il Vecchio – sarebbe diventato ancora più solido con il passare del tempo.
«Gli Antichi Romani – spiega ancora Masic – erano consapevoli che il loro cemento fosse un ottimo materiale, ma probabilmente non avrebbero mai immaginato che sarebbe durato migliaia di anni».
Le analisi del MIT hanno scoperto che molto dipende proprio dalla mescola con cui erano realizzati quei materiali. Il cemento romano veniva infatti prodotto utilizzando roccia vulcanica tenuta insieme da una malta speciale, realizzata attraverso l’uso di vari ingredienti tra questi pozzolana, calce e acqua. Rispetto a questo, una conferma è arrivata anche dall’analisi dei materiali con cui sono state costruite le dighe e i porti romani, che mostravano al loro interno anche la presenza di particolari minerali che contribuivano a rendere più forte e solido il cemento.
Un elemento sottolineato anche dal settimanale inglese “The Economist”, che in questi giorni ha richiamato il testo “De Architectura”, scritto nel I secolo A.C. da Marcus Vitruvius Pollio, l’architetto che secondo gli storici avrebbe anche partecipato a molte campagne militari con Giulio Cesare. In questa serie di volumi lo studioso romano si concentra sulle tecniche di produzione del calcestruzzo, affinché le opere siano in grado di sopravvivere al tempo.
La scoperta degli studiosi del MIT
Lo studio dei ricercatori dell’ateneo di Boston, pubblicato sulla rivista “Scienze Advances”, è andato oltre rispetto alle informazioni raccolte già negli ultimi anni in merito alle caratteristiche dei monumenti dell’Antica Roma aggiungendo interessanti scoperte che potranno tornare utili per l’industria mondiale delle costruzioni.
Le analisi dei ricercatori sono state condotte sulle mura del parco archeologico di Priverno, una piccola località non troppo lontana da Roma, e hanno rivelato che al loro interno sono presenti piccole quantità di carbonato di calcio e sono arrivati alla conclusione che la calce viva non era stata mescolata con l’acqua prima dell’aggiunta degli altri ingredienti. Al contrario – ricostruisce oggi anche un articolo del quotidiano britannico The Guardian – è possibile che prima dell’acqua siano stati aggiunti alla calce altri materiali come ad esempio la cenere.
Il metodo utilizzato dai romani viene chiamato “miscelazione a caldo” proprio per il calore che viene prodotto e sarebbero proprio le alte temperature raggiunte a ridurre la presenza di acqua nel calcestruzzo, una delle cause dell’emergere nel tempo di fratture nel materiale. In sostanza – spiegano gli scienziati – le caratteristiche di questo metodo di produzione permetterebbero al calcestruzzo di “autoguarirsi”, rendendolo più duraturo nel tempo.
«Gli approcci di ispirazione romana – ha commentato al giornale il capo degli studiosi Armir Masic – basati ad esempio sulla miscellazione a caldo potrebbero essere un modo conveniente per far durare più a lungo le nostre infrastrutture, proprio attraverso i meccanismi di autoguarigione che illustriamo nello studio».