Stefano Boeri e la città arcipelago che salverà l’ambiente

Intervista all’archistar italiana: «Il futuro è nella fusione tra natura e città»

Stefano Boeri è un architetto di fama mondiale, oltre che urbanista e accademico italiano. È presidente della Triennale di Milano e professore presso diversi atenei europei. Il suo studio Stefano Boeri Architetti ha progettato il Bosco Verticale di Milano, divenuto un simbolo internazionale della fusione tra la natura e l’edilizia.

Il suo sogno è dar vita a “una città arcipelago”, fatta di quartieri che assomigliano a isole circondate da verde pubblico, e servita da sistemi efficienti di mobilità sostenibile. Dopo il bosco verticale, l’architetto Stefano Boeri riflette sul futuro della rigenerazione urbana, un processo accelerato dal Covid e una sfida importante anche per l’Italia, dove il tema della riqualificazione delle città e dei borghi storici è ormai centrale.

 

Nel suo ultimo libro “Urbania” lei ragiona anche sulla città del futuro. Come dovrebbe essere?

«Come sempre c’è una differenza tra come la vorrei e come penso che diventerà. Personalmente vorrei una città capace di offrire a tutti i cittadini una dimensione di vita più facile e un accesso ai servizi per tutti. Il problema fondamentale è riscoprire la dimensione del quartiere, del borgo, del rione. Per farlo immagino una città che assomiglia a un arcipelago, dove i vari quartieri al loro interno sono percorsi da strade pedonali e tutto intorno un mare di verde, grandi corridoi e viali verdi con mobilità pubblica sostenibile e mobilità privata ridotta ai minimi termini»

 

Quando le è venuta l’idea che la natura potesse convivere in modo così stretto con lo sviluppo urbano?

«Sono almeno venti anni ormai che lavoro su questo progetto divenuto ormai quasi un’ossessione, ovvero l’idea che la natura vivente debba tornare a vivere e abitare nei pressi delle nostre case. Abbiamo bisogno di natura perché ci aiuta a respirare meglio, a ridurre calore, a pulire l’aria. Sui tetti, sui viali, ovunque dobbiamo fare uno sforzo perché ci sia più natura».

 

Nasceranno dei nuovi boschi verticali in diverse città europee, giusto?

«Stiamo portando avanti nuovi progetti in varie città europee. Abbiamo inaugurato un bosco verticale a Eindhoven in social housing destinato all’affitto per i giovani studenti, dimostrando così che questo genere di architettura urbana non è ad esclusivo appannaggio delle famiglie abbienti. Abbiamo poi lanciato un altro progetto ad Anversa dove tutti i tetti dei palazzi sono abitati da boschi urbani. Inoltre, a Milano sono in corso due progetti di bosco verticale molto interessanti: uno sui Navigli e uno a Melchiorre Gioia, totalmente diversi dal precedente. In uno dei due casi usiamo addirittura il legno nel processo costruttivo del palazzo».

 

In Messico avete anche realizzato la prima città foresta, è vero?

«Si tratta di una piccola località nei pressi di Cancun, dove abbiamo riqualificato un intero borgo che nasce in mezzo a una foresta di mangrovie con circa 7 milioni di alberi. All’origine c’era stata una terribile cementificazione, poi l’amministrazione locale ha bloccato la costruzione di un enorme centro commerciale e ci ha affidato l’incarico di trasformare quella zona in una città foresta».

 

Nelle scorse settimane a Glasgow si è dibattuto sugli interventi necessari per ridurre l’inquinamento globale. Cosa può fare l’architettura per sostenere questa sfida?

«L’architettura ha un ruolo significativo, perché deve sapere affrontare il tema della produzione energetica. Da un lato puntare su edifici verdi, dove tanto la fase della costruzione quanto quella della vita abbiano un impatto minimo in termini di inquinamento; dall’altro spingere per sostenere la mobilità sostenibile, quindi biciclette, ma anche trasporto pubblico green, come treni elettrici e metropolitane. A Padova, ad esempio, una città con circa 150mila abitanti, abbiamo realizzato un piano per l’amministrazione cittadina in cui proponiamo di triplicare le linee su ferro».

 

Cosa manca alle città italiane per completare il percorso verso la smart city, come stanno facendo altre grandi città come Barcellona o Singapore?

«Smart è un termine che si usa in modo generico. Perché una città sia davvero intelligente non basta che dia informazioni ai cittadini. Deve invece permettere ai cittadini di poter partecipare alle decisioni. Ad esempio se un sensore mi permette di sapere che nei pressi di una scuola l’aria è particolarmente inquinata, devo rendere anche operativo un protocollo che consenta la partecipazione attiva dei cittadini alle scelte delle autorità politiche».

 

Il Covid ha cambiato la richiesta delle persone rispetto ai luoghi in cui vivono? Maggiore comodità, maggiore vivibilità, maggiori tecnologie?

«Il Covid per noi architetti non è stata una rivoluzione, ma un acceleratore di alcune tendenze che già erano presenti prima. Ha imposto un maggiore rapporto con il verde, un’idea nuova di mobilità, una spinta ulteriore verso le energie rinnovabili. Il tema chiave oggi in Italia è la riqualificazione urbanistica. Abbiamo migliaia di borghi storici abbandonati e tornare a viverci è un grande lavoro; inoltre ci sono quattro milioni di edifici ormai vecchi e inquinanti che dovremmo demolire e ricostruire. Questa è la grande sfida per il futuro».

 

Si parla oggi di edifici “carbon positive” che, non solo non inquinano, ma migliorano la qualità dell’aria. Qual è secondo lei la frontiera in termini di edilizia sostenibile?

«Questa è un’altra delle frontiere dell’architettura urbana. È quello che stiamo provando a fare con i nuovi boschi verticali, edifici che oltre all’elemento della natura, sono anche costruiti interamente in legno, con effetti “carbon positive” davvero incredibili capaci di rendere l’edificio assolutamente autosufficiente dal punto di vista del fabbisogno energetico. Parliamo di un modello straordinario per l’urbanistica del futuro»