Investimenti e rilancio: la sfida mondiale post-Covid

Intervista esclusiva a Marta Dassù, senior advisor European Affairs dell’Aspen Institute e direttore della rivista Aspenia

Non solo il nuovo presidente Usa, Joe Biden, ma anche l’Europa con il Recovery Plan e la Cina stanno puntando sugli investimenti infrastrutturali in chiave anticiclica, con l’obiettivo di rilanciare le economie. Ci aspetta un periodo di grandi investimenti? Le infrastrutture possono davvero essere lo strumento più efficace di ripartenza economica nella fase post-pandemica?

«Non c’è dubbio che le particolari condizioni legate agli effetti economici della pandemia stanno spingendo i governi, di qualsiasi tipo e colorazione politico-ideologica, a intervenire con massicci pacchetti di stimolo».

Il 2021 sarà l’anno dei grandi investimenti: ne è convinta Marta Dassù, Senior Advisor European Affairs di Aspen Institute, la prestigiosa organizzazione internazionale non profit, fondata nel 1950 a Washington e presente in tutto il mondo per sostenere processi di formazione di una leadership illuminata.

In un’intervista esclusiva rilasciata a “Webuildvalue”, l’esperta italiana di geopolitica, già sottosegretario e vice ministra agli Affari Esteri, spiega che «gli investimenti infrastrutturali sono centrali in quest’ottica, vista la loro caratteristica di moltiplicatori di crescita, almeno potenziali. In particolare, se guardiamo alla struttura della Recovery and Resilience Facility europea, gli investimenti nella transizione energetica e nella transizione digitale (che saranno in parte investimenti infrastrutturali) assorbiranno più del 50% dei fondi».

 

In che modo gli investimenti nelle infrastrutture possono favorire questo rilancio?

«Gli investimenti infrastrutturali sono certamente parte integrante della ripresa, ma lo sono soprattutto se si adotta una visione “trasformativa” di particolari investimenti, cioè quelli tecnologicamente più avanzati in chiave di sostenibilità e che possano generare un “effetto volano” su diversi comparti produttivi (energia, trasporti e logistica, e ovviamente anche digitalizzazione). È fondamentale che gli investimenti pubblici possano innescare la crescita di quelli privati.

Si aggiunge un fattore che è soltanto in parte tangibile e quantificabile, eppure decisivo per la sostenibilità complessiva della ripresa economica: quello della qualità della vita, che in ultima analisi può rendere un sistema-Paese (o una macro-area economica come l’Unione Europea) attraente sia per i cittadini che vi risiedono sia per chi fosse interessato a investire ulteriormente a lungo termine. In altre parole, su scala globale dobbiamo ragionare in termini di competizione tra modelli organizzativi, sorretti anche dalle grandi infrastrutture di nuova generazione».

 

Parliamo di Recovery Plan. Ci aiuta a capire la portata eccezionale del piano europeo? Che tipo di occasione rappresenta per la crescita e lo sviluppo del continente?

«Intanto credo che si debba ricordare la struttura di questi accordi europei: a dicembre scorso è stato approvato un doppio binario, cioè il Quadro finanziario pluriennale 2021-2027 (il bilancio della UE) e il cosiddetto NextGenerationEU in quanto strumento temporaneo per la ripresa. I fondi della Recovery and Resilience Facility (una dotazione di 750 miliardi di euro fra grants e loans), ossia del pilastro centrale di NextGenerationEU, saranno disponibili fino al 31 dicembre 2023. I pagamenti dei contributi finanziari agli Stati saranno effettuati entro il 2026. In sostanza, è uno strumento transitorio di investimento potente, di cui l’Italia è il primo beneficiario, costruito per la prima volta sull’emissione di titoli di debito comuni: l’Ue ha compiuto così un primo passo verso una capacità fiscale europea e punta a sostenere la ripresa delle economie più colpite dalla crisi per evitare tensioni asimmetriche all’interno dell’area euro. Il compito dell’Italia è naturalmente quello di presentare progetti di investimento credibili, accompagnati dalle riforme necessarie per riuscire a spendere “bene”. Ricordiamoci sempre che, quanto a capacità di utilizzo di fondi europei, abbiamo uno dei record peggiori in Europa. E affinché gli investimenti pubblici spostino l’Italia su una traiettoria di crescita sostenibile, dopo due decenni di stagnazione, bisognerà rimuovere quelle debolezze strutturali che hanno a lungo impedito la ripresa del nostro paese.

Quello che un po’ impropriamente chiamiamo “Recovery Plan” va visto come un primo passo nella giusta direzione; è una grande opportunità che richiede però nuove capacità organizzative sia a livello UE che a livello nazionale».

Chongqing, China

 

Anche l’Italia naturalmente è alle prese con la stesura del piano di investimenti da legare al Recovery Plan. Rispetto alle bozze circolate, che peso avranno gli investimenti nelle infrastrutture? Il paese riuscirà a sfruttare questa occasione nel rilancio delle grandi opere e quindi del lavoro?

«Intanto l’ammontare delle risorse finanziarie di cui l’Italia potrà beneficiare – circa 200 miliardi di euro – non ha precedenti, è molto superiore perfino al Piano Marshall (che si basava però su logiche e strumenti diversi). L’esperienza storica dell’immediato dopoguerra contiene comunque una lezione importante, nel senso che il fattore decisivo è la leva esercitata dai finanziamenti più ancora che l’entità in sé. Oggi come allora, è necessario innescare dinamiche virtuose per l’occupazione, la produttività e la fiducia complessiva tra gli investitori ma anche tra i consumatori – che poi sono anche contribuenti ed elettori. In un contesto del genere le infrastrutture possono realmente diventare segni tangibili di un cambiamento positivo. Come sappiamo, tutti i Piani nazionali dovranno essere presentati entro la fine dell’aprile prossimo: il Tesoro sta gestendo la revisione delle ultime versioni del Piano, è ancora presto per avere un giudizio di dettaglio sull’impianto finale.  L’Italia riuscirà a sfruttare questa occasione se combinerà investimenti e riforme, facendo in modo che la spesa diventi produttiva. Ripeto: dal momento che l’Italia ha fattori di debolezza precedenti alla pandemia, investimenti e riforme dovranno combinarsi».

 

L’arretratezza infrastrutturale italiana, soprattutto al Sud, è uno dei punti deboli del Paese nella competizione con gli altri partner europei?

 «Non c’è dubbio che il problema esista e che l’economia italiana sia tuttora “duale” se compariamo buona parte del Nord e buona parte del centro-Sud. La pandemia ha confermato e accentuato, ad esempio, il divario digitale. Su un piano del tutto diverso ma essenziale per il futuro delle infrastrutture, lo sviluppo degli snodi portuali continua a soffrire della carenza di interconnessioni adeguate. Va d’altra parte ricordato che parecchie delle debolezze strutturali del Paese non sono necessariamente legate al divario Nord-Sud: il fatto che l’ossatura del sistema produttivo siano le PMI crea dei rischi anche per il tessuto industriale del Nord; la macchina ammnistrativa rallenta l’imprenditoria su tutto il territorio nazionale; l’istruzione superiore va ammodernata ovunque e non soltanto al Sud. In sintesi, alcuni interventi specificamente pensati per un rilancio del Sud Italia sono più che ragionevoli, ma il sistema Paese va visto come una rete integrata su scala nazionale».

Tutti i Paesi aspettano la diffusione del vaccino. Una volta superata la pandemia, che mondo ci attende? Come cambieranno gli equilibri tra le grandi potenze? 

«La pandemia, seguita dalla competizione sui vaccini, non ha stravolto gli equilibri geopolitici precedenti ma ha accentuato alcune tendenze, anzitutto la rapidità dell’ascesa della Cina. Ho sempre pensato, tuttavia, che le analisi geopolitiche fatte nel 2020 tendano a sopravvalutare la forza comparativa del modello cinese e a sottovalutare il dinamismo dell’economia americana. Da questo punto di vista, sono indicative le ultime stime sulla ripresa degli Stati Uniti: grazie alla campagna vaccinale e al massiccio pacchetto di stimolo (1,9 trilioni di dollari) appena passato al Congresso, gli USA potrebbero registrare una crescita del 7-8% a fine 2021. Questo significherebbe che per la prima volta da circa quindici anni proprio l’economia americana (e non quella cinese) diventerà il maggiore traino della crescita mondiale.

L’Europa ha il problema di collocarsi in questo scenario. Ursula von der Leyen ha parlato di “Europa geopolitica”. E si discute di “autonomia strategica”. Ma gli obiettivi, al di là delle formule, non sono ancora del tutto chiari, anche perché i principali Paesi europei non hanno percezioni identiche. Il problema è semplice e complicato al tempo stesso: l’Europa non vuole essere trascinata in una spirale di tensioni fra Cina e Stati Uniti, anche per il peso che mantiene comunque il mercato cinese per le grandi economie dell’euro-zona, Germania anzitutto; ma deve trovare un accordo con Washington sul problema di come gestire l’ascesa cinese. Altrimenti, l’atteso rilancio dei rapporti transatlantici – decisivo per ragioni di sicurezza e per ragioni economiche – non avverrà. Al tempo stesso, in campo commerciale, tecnologico, industriale, l’Europa aspira a rafforzarsi a sua volta come “polo” del sistema globale. Sono i grandi temi di oggi e domani».

 

Oggi sembra che la Belt&Road Initiative cinese venga messo in secondo piano alla luce di progetti più immediati, come l’ulteriore sviluppo della Greater Bay Area. Che tipo di strategia sta seguendo la Cina in tema di investimenti e rilancio economico?

«Il governo cinese sembra puntare su un maggiore grado di autonomia strategica dal resto del mondo e sullo sviluppo del suo enorme mercato interno, e dunque potrebbe in qualche modo ridurre l’enfasi su un progetto come la Belt&Road, che per ora ha prodotto risultati abbastanza deludenti. Ma la Cina è anzitutto occupata da se stessa; e la “dual circulation strategy” fa leva sulla componente statale dell’economia, penalizzando in qualche modo il dinamismo del resto. Il dilemma cinese si può riassumere anche così: i massicci investimenti infrastrutturali hanno fatto della Repubblica Popolare un gigante economico, ma ora solo la creazione di un sistema di welfare (per una popolazione che sta invecchiando rapidamente) consentirebbe al Paese di aumentare la ricchezza pro capite e la qualità della vita su scala continentale. L’ultimo piano quinquennale, appena approvato, conferma la priorità degli investimenti infrastrutturali, con target ambientali bassi rispetto alle enunciazioni di principio in materia di climate change».

 

L’elezione di Joe Biden come cambia l’atteggiamento degli Stati Uniti sullo scacchiere mondiale e in particolare nel rapporto con l’Unione europea, anche in vista delle sfide attuali del continente?

«L’Amministrazione Biden segna un ritorno all’idea che le alleanze siano un vantaggio strategico e non soltanto un costo per gli Stati Uniti. Con l’Europa esiste una convergenza su alcuni obiettivi che la UE considera decisivi: lotta al cambiamento climatico, gestione del commercio internazionale in chiave per quanto possibile negoziale, regolamentazione del settore digitale e coordinamento sulla cybersecurity.

Resto dell’idea che il vero tema di tensione potenziale sarà la questione Cina: per gli europei, che pure hanno definito la Cina un “rivale sistemico”, persiste comunque una logica “economy-first”, per gli Stati Uniti è la grande sfida geopolitica del secolo».