Dalla siccità alle inondazioni: le infrastrutture idriche per salvare il pianeta

Il ruolo delle infrastrutture idriche sempre più determinante per ridurre gli effetti del clima

Inondazioni, siccità, variabilità atmosferica, sono tutti fattori che impattano in modo drammatico sulla disponibilità di acqua e rendono ancora più determinante il ruolo delle infrastrutture idriche.
I cambiamenti climatici hanno infatti un impatto inevitabile sulle grandi infrastrutture. La siccità colpisce le dighe in Africa, così come i bacini idrici negli Stati Uniti, dove – in paesi come la California – il livello dell’acqua raccolta ha raggiunto i minimi storici.

Le piogge eccessive creano invece problemi enormi alle infrastrutture che dovrebbero gestire le acque reflue e piovane, esponendo città e campagne al rischio di inondazioni. In India, il 40% delle centrali elettriche è situato in aree esposte ad altissimi rischi climatici, e tra il 2013 e il 2016 le più grandi utility energetiche del paese hanno subito perdite pari a 1,4 miliardi di dollari dovute proprio ai cambiamenti climatici.
Per questa ragione molti paesi stanno correndo ai ripari, investendo nelle infrastrutture idriche, tanto per gestire in modo più efficiente l’acqua, quando questa scarseggia, quanto per ridurne al massimo gli impatti negativi, quando invece è troppa.

In 15 città della Cina, ad esempio, è stato lanciato il progetto Sponge City (“Città Spugna”), per realizzare una rete di infrastrutture in grado di raccogliere e riutilizzare il 70% delle acque piovane.
Investire nelle infrastrutture idriche diventa così l’imperativo dei prossimi anni, e – come conferma il rapporto “The New Climate Economy” realizzato dalla Global Commission on the Economy and Climate – sarà la chiave per assicurare uno sviluppo sostenibile alle prossime generazioni.

Gli investimenti necessari nelle infrastrutture idriche

Secondo i calcoli stilati dal rapporto “The New Climate Economy”, da qui al 2030 dovranno essere investiti annualmente dagli 0,9 agli 1,5 trilioni di dollari per la gestione delle acque e l’igiene, circa il 20% del totale degli investimenti necessari nel settore mondiale delle infrastrutture.
Il 70% di questi investimenti nelle infrastrutture idriche dovrebbe essere destinato alle grandi aree urbane che si stanno sviluppando soprattutto nel Sud del mondo.
Anche i paesi più sviluppati hanno bisogno di nuovi investimenti, soprattutto per manutenere e rinnovare le reti infrastrutturali, che in molti casi mostrano segni di invecchiamento.

Ma le aree del mondo a maggior rischio sono quelle povere e in via di sviluppo. Nei paesi dell’Africa Sub-Sahariana il 72% delle persone non ha accesso ad acqua sufficiente per garantire le più basiche condizioni igienico-sanitarie, e il 42% non ha alcun accesso diretto a fonti idriche anche per bere. Investire 114 miliardi di dollari ogni anno sulle infrastrutture idriche dei paesi in via di sviluppo e delle economie emergenti, sarebbe sufficiente per assicurare a tutti l’accesso all’acqua potabile.

Il ritorno sugli investimenti in infrastrutture idriche

Investire nelle infrastrutture idriche ha un impatto non solo sociale, ma anche economico. Questo dice lo studio analizzando il ritorno in termini di ricchezza prodotta e riduzione degli sprechi che una più efficiente e moderna gestione dell’acqua può garantire alla collettività.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a livello globale per ogni dollaro investito nel miglioramento delle condizioni igieniche, i benefici per la collettività sono pari in media a 5,5 dollari; mentre per ogni dollaro investito nelle infrastrutture di trattamento idrico destinate all’approvvigionamento di acqua potabile, il ritorno è di 2 dollari.

Questi risultati, frutto di una media, sono più elevati nei grandi agglomerati urbani, le cosiddette megacity dove il numero degli abitanti supera i 10 milioni e le condizioni di accesso all’acqua potabile sono determinanti per il benessere delle persone.
E proprio le grandi città, in vista dell’aumento della popolazione ma anche dell’impatto di eventi climatici drammatici come le inondazioni, sono chiamate ad avviare progetti di gestione delle acque reflue e di messa in sicurezza dei fiumi cittadini.

È quello che sta facendo la capitale degli Stati Uniti d’America, Washington D.C., dove proprio il mix di acque reflue e acque piovane ha causato negli scorsi anni la piena dei grandi fiumi, oltre ad aver contribuito ad aumentarne i fattori inquinanti.
Come risposta la DC Water (Water and Sewer Authority), l’utility idrica del Distretto della Columbia, ha lanciato il progetto Clean Rivers Project, che – con un investimento di 2,6 miliardi di dollari – prevede la costruzione di tre tunnel sotterranei per il trasporto delle acque reflue e delle acque piovane, in modo che non finiscano nei fiumi. Parte del progetto, realizzato da una joint-venture costituita da Salini Impregilo, SA Healy (una controllata di Lane Construction, a sua volta parte del Gruppo Salini Impregilo) e Parsons, ha previsto la costruzione dell’Anacostia River Tunnel, uno dei tunnel che servirà per ridurre gli scarichi nei fiumi di Washington D.C. Alla fine del progetto, prevista per il 2025, le acque reflue scaricate nei fiumi si ridurranno del 96%.

Chi investe nell’acqua

Rispondere a questa esigenza di investimenti nello sviluppo delle infrastrutture idriche non è semplice. Gli stati da soli non sono in grado di assicurare la dotazione finanziaria necessaria, e hanno bisogno del supporto degli investitori privati. In questo senso, molti paesi hanno avviato partnership pubblico private (PPP) nel settore idrico. Questo è accaduto ad esempio in Giordania, un paese che riutilizza in modo massiccio l’acqua trattata per l’irrigazione, dove un progetto di partecipazione pubblico-privata ha permesso di modernizzare e rendere operativo il As-Samra Wastewater Treatment Plant, uno degli impianti di trattamento idrico più importanti del paese.

Un altro strumento finanziario che negli ultimi anni è stato utilizzato con una certa continuità è quello dei “green bond”, le cosiddette obbligazioni verdi, definite così perché la loro emissione è legata a progetti che hanno un impatto positivo sull’ambiente, dal trattamento dell’acqua e dei rifiuti al controllo dell’inquinamento, fino anche alle infrastrutture per i trasporti che garantiscono però una mobilità sostenibile. I criteri previsti per l’emissione dei “green bond” devono rispondere a standard ben precisi che vengono certificati dalla Climate Bonds Initiative (CBI), un’organizzazione riconosciuta a livello mondiale e impegnata a smobilizzare investimenti pari a 100 trilioni di dollari indirizzati proprio alle infrastrutture sostenibili.