Infrastrutture: è l’ora del consolidamento industriale

Intervista esclusiva a Stefano Gatti

Da un lato un enorme gap infrastrutturale ancora da colmare; dall’altro le sempre più ridotte disponibilità finanziarie degli stati. E in mezzo, il ruolo dei privati, sempre più determinante per lo sviluppo del settore delle grandi opere. «Un settore di sicuro interesse per gli investitori», spiega Stefano Gatti, professore di finanza all’Università Bocconi di Milano, perché garantisce ritorni prevedibili nel lungo termine oltre ad avere un impatto sulla qualità della vita delle persone. Mobilità sostenibilesviluppo delle megacityutilizzo intelligente della risorsa idrica: sono solo alcuni degli ambiti verso i quali saranno indirizzati i grandi investimenti nei prossimi anni. Con l’obiettivo di colmare l’enorme ritardo accumulato nel passato.

Professore, si parla spesso di un gap infrastrutturale a livello mondo. A quanto ammonta realmente e perché è così importante colmarlo?

«McKinsey stima da qui al 2030 un gap infrastrutturale, ossia un bisogno extra di investimenti, pari a circa 57mila miliardi di dollari, mentre Oxford Economics si spinge fino al 2040 calcolando un gap di 94mila miliardi. Sono cifre enormi: guardando solo agli Usa e all’Europa, parliamo di un valore che varia tra i 10 e i 15mila miliardi, con interventi necessari soprattutto in settori strategici come i trasporti, l’energia, l’acqua.
Questo gap esiste perché, rispetto agli obiettivi di una crescita economica di lungo termine che sia anche ecologicamente sostenibile, le infrastrutture di oggi non sono idonee a quello che sarà il mondo di domani.

A valle però di questa esigenza c’è una considerazione da fare. Solitamente in un mondo in cui non esistono vincoli finanziari, il gap infrastrutturale dovrebbe essere coperto dallo stato, perché le infrastrutture rappresentano la base dell’attività economica. Tuttavia molti paesi, soprattutto quelli di più vecchia industrializzazione, non hanno le risorse pubbliche adeguate per per affrontare gap. Di fatto non ci sono soldi, e questo vuol dire che i privati che devono subentrare».

Quali sono i megatrend che influenzeranno gli investimenti nei prossimi anni?

«Ce ne sono tanti, anche se a mio avviso tre in particolare saranno i più importanti.
Il primo riguarda la dinamica della popolazione, quindi i trend demografici, perché sempre di più le società in cui viviamo saranno caratterizzate da una polarizzazione della popolazione. Già oggi alcuni dati ci dicono che di fatto circa il 50% della popolazione mondiale è nella fascia dei 30 anni, quella dei cosiddetti Millennials. Sul fronte opposto le stime demografiche delle Nazioni Unite confermano anche che gli over 60 passeranno entro il 2050 da 900 milioni a 2,1 miliardi. La società diventa biforcata tra giovani e vecchi, e questo avrà implicazioni anche dal punto di vista delle infrastrutture. Da una parte i Millennials saranno molto più attenti alle tematiche ambientali, orientati a mettere in discussione lo status quo, e questo in certi casi potrebbe rappresentare un fattore negativo nei confronti di settori con impatti ambientali molto rilevanti. Dall’altra saremo chiamati ad affrontare un problema di invecchiamento della popolazione, dagli ospedali alle case di cura, ma anche di disegno delle città, quartieri urbani dedicati a persone anziane, e mezzi di trasporto che possano connettere meglio la popolazione anziana.

Il secondo grande trend è quello ambientale, cui si lega tutto il tema della migrazione da fonti fossili a rinnovabili. Basti dire che il 2016 è stato primo anno nel quale la nuova capacità installata di generazione di energia da rinnovabile ha superato qualsiasi altra nuova installazione di combustibile fossile. Carbone e petrolio sono destinati ad essere marginalizzati. In questo quadro assume particolare rilievo il tema dell’emergenza idrica, perché i dati delle Nazioni Unite ci dicono che di quei famosi 57mila miliardi da spendere nelle infrastrutture, 11mila sono rappresentati da investimenti nel settore idrico. Per fare un esempio allo stato attuale il 40% popolazione che vive in Africa sub-sahariana è chiamata a razionare l’acqua e lo stesso accade per il 30% di chi vive nelle regioni Sud dell’ Asia.

Ultimo trend è il nuovo ruolo dei trasporti, che si lega ai temi dell’urbanizzazione e allo sviluppo delle smart city. I dati confermano che una quantità significativa di esseri umani migrerà dalle campagne. Solo in Cina si stima che 600 milioni di persone debbano migrare dalle campagne alle megacittà entro i prossimi anni. Ci sarà quindi una forte necessità di ridisegnare il tessuto urbano e le vie di trasporto, e le città dovranno cambiare proprio per una questione di sopravvivenza, decarbonizzando i trasporti e puntando sulla mobilità sostenibile».

I cambiamenti climatici, più in generale i megatrend come la nascita di megacity, in che modo incidono sulla propensione agli investimenti?

«I privati guardano oggi con maggiore interesse al settore delle infrastrutture, perché si tratta di investimenti di lungo termine che hanno caratteristiche particolari: prevedono grandi spese in conto capitale all’inizio ma poi – essendo settori essenziali che forniscono servizi essenziali e per questo sono molto regolati – diventano candidati naturali per generare un flusso di cash flow e di reddito piuttosto stabile e molto interessante per un investitore. Se sono investitore a lungo termine, con impegni di pagamento lunghi, la possibilità di trovare investimenti lunghi si sposa molto bene.
Complice che altri investimenti più tradizionali hanno rendimenti molto contenuti, oggi si guarda con più attenzione al tema delle infrastrutture, e anche gli investitori e gli asset managers vedono l’infrastruttura come un’interessante opportunità. Viene infatti considerato un investimento coordinato con orizzonti temporali di lungo termine, e favorevole per assicurazioni, fondazioni, fondi pensione, ecc. Oggi possiamo dire che ci sono tanto capitale e tanti occhi puntati su questo settore, quando fino a un decennio fa era lontano dagli interessi dei privati».

Vista aerea su Hong Kong
Qual è l’impatto e la portata sul settore italiano delle costruzioni di un’operazione come il Progetto Italia?

«Il settore delle infrastrutture a livello europeo e internazionale è soggetto a un processo di consolidamento importante. Le aziende cercano di diventare più grandi perché essendo più grandi si possono ottenere benefici nelle economie di costo. Se questo vale a livello internazionale, a più forte ragione deve valere a livello nazionale, dove abbiamo realtà decisamente più piccole.
Ancora oggi tra il primo operatore europeo del settore e il primo in Italia c’è un divario importante che va colmato. Il fatto che il Progetto Italia abbiamo colto l’occasione della crisi di un competitor importante come Astaldi, è la conseguenza della necessità che bisogna crescere in maniera ragionata e intelligente. Crescere per cercare di diventare una realtà competitiva a livello internazionale è un processo da salutare in maniera positiva».

La partecipazione anche della Cassa Depositi e Prestiti sul Progetto Italia ci conferma che c’è un interesse crescente da parte dei grandi investitori internazionali?

«La Cassa Depositi e Prestiti viene ormai definita da molti un fondo sovrano italiano, e i fondi sovrani sono uno degli investitori potenzialmente più interessati perché hanno le caratteristiche di essere un investitore paziente, di medio e lungo termine, che vuole effettuare investimenti per generare sviluppo, posti di lavoro e benessere nel proprio paese, e come investitore di lungo termine è chiamato a cercare di creare condizioni di crescita nel lungo termine. Un’alleanza tra privati e un fondo sovrano rappresenta una possibilità reale per creare una sinergia tra le istanze di sviluppo del paese e l’interesse degli investitori di avere un buon rapporto rischio rendimento».

Secondo il “Manifesto per le infrastrutture” realizzato dalla Bocconi, i soldi per le infrastrutture in Italia ci sono ma è necessario spenderli in modo efficace…

«L’idea era quella di coagulare intorno al manifesto le diverse istante di politica industriale del paese e uno degli aspetti che emergeva è proprio che il denaro potenzialmente c’è. Se prendiamo in considerazione il potenziale che si ha nel nostro paese di risorse nella disponibilità di investitori di lungo termine, come casse previdenziali, fondi pensione, fondazioni, risulta evidente che un maggiore sostegno alle infrastrutture è possibile. Da questo punto di vista le risorse finanziarie convogliabili ci sono, il problema fondamentale è che stiamo parlando di investimenti di lungo termine, e quindi per attrarre l’interesse degli investitori è necessario che ci sia anche un quadro di natura normativa e di qualità delle istituzioni che deve essere impeccabile. Non si può dire a investitore: “vieni a investire e il giorno dopo ti cambio le regole del gioco”. Se investo ho bisogno di certezza del diritto, qualità delle istituzioni e un supporto regolatorio non ostativo e non negativamente orientato nei confronti degli investimenti nelle infrastrutture».