Favazzina: il viadotto sospeso nel vuoto

Il fiore all’occhiello dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria è un’opera ingegneristica unica nel suo genere

A guardarlo da sopra, l’impressione è quella di essere sul punto di compiere un bungee jumping nel vuoto, un salto in mezzo alle montagne, stretti tra i dirupi scoscesi dell’appennino e sospesi sulle acque del fiume Favazzina che corre verso il mare.

Il senso di vertigine è inevitabile se si percorre il viadotto Favazzina, una delle opere ingegneristiche più complesse dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, che galleggia ad un’altezza di 150 metri dal fondo della valle, circa la metà della Torre Eiffel.

Il viadotto, realizzato dal Gruppo Webuild, si trova nel cuore di un appennino brullo e incontaminato, a pochi chilometri da Scilla, una delle più belle località di mare della Calabria.

La sua ricostruzione è stata un passaggio fondamentale nell’opera di modernizzazione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, confermando il valore strategico del viadotto per i collegamenti con il Sud. Prima della realizzazione del nuovo ponte, il viadotto era stato progettato nel 1974 dall’ingegnere Riccardo Morandi, lo stesso progettista del vecchio ponte di Genova. E come il viadotto originario, il nuovo Favazzina si inserisce nelle montagne all’interno di due gallerie, la Brancato sul lato di Reggio Calabria e la Muro sul lato di Salerno.

Un’autostrada volante che sovrasta la valle tagliando in due le montagne.

Le caratteristiche tecniche del viadotto Favazzina

Alle ore 14 del 5 marzo del 2013 anche l’ultima tratta della carreggiata Nord è stata aperta al traffico. Un momento importante perché ha segnato la fine dei lavori su una delle tratte più complesse della nuova Salerno-Reggio Calabria, che vede in successione la presenza di cinque gallerie e sette viadotti.

Tra questi il Favazzina che per dimensioni, caratteristiche e complessità ambientali è ancora oggi uno dei più apprezzati in Europa. E proprio dall’Europa, e in particolare dal celebre Viadotto Millau (per anni il più alto al mondo con i suoi 269 metri tra il piano stradale e il fondo valle), ha preso forma il progetto del Favazzina, pensato per diventare il fiore all’occhiello di un’autostrada famosa proprio per i suoi viaggi in quota. Una caratteristica presa in prestito dalla vecchia autostrada che, con il ponte di Bagnara, il Viadotto Italia, il Serra e il Rago, ha vantato per anni la più elevata quota altimetrica dei viadotti in tutto il mondo.

Per quanto riguarda il Favazzina, la lunghezza totale del viadotto raggiunge i 440 metri, divisa –  proprio in relazione alle caratteristiche della vallata – in una campata centrale di 220 metri e in due campate laterali che misurano 110 metri.

Il tracciato del ponte Favazzina è curvilineo dall’inizio alla fine, mentre l’impalcato è realizzato con un sistema misto di acciaio e calcestruzzo, e viene sorretto nel vuoto da enormi pile che assomigliano a giganti ben piantati nella vallata. La pila 2 della carreggiata Sud, la più piccola tra tutte, è alta 54,6 metri. Un’altezza che raggiunge i 91,9 metri per la pila 2 della carreggiata Nord.

Le complessità del cantiere

Un filo invisibile collega la costruzione del viadotto Favazzina con la storia di alcune delle opere più importanti costruite e in costruzione dal Gruppo Webuild in Italia.

Un filo che è fatto di tecnologia, sfide ingegneristiche, capacità tecniche ma anche esperienze personali. Quella del geometra Umberto Russo, oggi impegnato nella realizzazione del nuovo ponte di Genova e dall’aprile del 2010 al dicembre del 2011 direttore tecnico di cantiere sul viadotto Favazzina.

E ancora la storia dell’ingegnere Antonio Franzese, che nel 2012 ha assunto la carica di direttore tecnico del Favazzina e oggi ricopre lo stesso incarico su uno dei due lotti dell’alta velocità Napoli-Bari realizzata dal Gruppo Webuild.

Così come tante altre opere infrastrutturali portate a termine in Italia, anche il viadotto della Salerno-Reggio Calabria è stato segnato da un elevato livello di difficoltà, tanto da essere considerato ancora oggi una delle sfide ingegneristiche più complesse mai affrontate nel paese.

«La difficoltà maggiore – spiega Franzese – era accedere ai punti dove si preparavano le fondamenta delle pile, in fondo ad una vallata stretta e profonda. Per permettere alle betoniere di arrivare fin lì abbiamo dovuto scavare tutti i versanti. Se non ci fossimo riusciti, sarebbe stato necessario trasportare il calcestruzzo con delle teleferiche».

Viadotto Favazzina

La sostenibilità ambientale legata al progetto

Alle difficoltà tradizionali si è aggiunto un fattore spesso incalcolabile e legato alla natura. Nel caso del Favazzina entrambi i versanti montagnosi presentano pendenze così ripide che superano i 65°, e sono ricoperti da materiali mobili e vegetazione. Oltre a questo, lavorare partendo dal fondo della valle era quasi impossibile, in parte proprio per le caratteristiche del luogo e in parte per preservare la bellezza naturalistica di un’area che non poteva essere violata dal cantiere.

«L’intero progetto della Salerno-Reggio Calabria prevedeva interventi di tutela dell’ambiente, controllati e validati dal ministero dell’Ambiente – racconta l’ingegnere Antonio Franzese. –Si è trattato di un progetto enorme di rinaturalizzazione, per il quale sono stati piantati querce, castagni, ulivi, tipici di quella zona.

Nel vallone del Favazzina è stato riqualificato l’alveo del fiume e i due versanti delle montagne, che erano stati intaccati dalla cantierizzazione. E anche dove prima sorgeva il vecchio ponte c’è stato un ripristino ambientale».

E proprio per tutelare l’ambiente e stabilizzare il versante di Reggio Calabria è stata realizzata una cuffia lunga circa 80 metri bloccata al terreno da 10.000 chiodi. Un intervento inconsueto ma inevitabile per “aggrappare” il nuovo viadotto ai pendii scoscesi dell’Appennino.

Lavorare in sicurezza, senza guardare giù

L’altezza del Favazzina, unita alla conformazione di una valle stretta e angusta, ha imposto l’adozione di una serie di misure di sicurezza più rigide di quanto previsto dalla stessa legge.

Il lavoro in quota, su pile alte quasi 100 metri, e sull’impalcato che raggiungeva i 150 metri dal suolo, è stato impostato rispettando accorgimenti speciali, adottati solo per questo cantiere.

I parapetti anticaduta sui piani di lavoro sono stati alzati, passando dal metro previsto dalla legge al metro e mezzo. E per tutta la lunghezza dell’opera è stata posizionata una rete, pensata anche per avere un impatto psicologico sui lavoratori, mitigando la visuale in modo da ridurre al massimo il rischio di panico legato proprio alle altezze elevate. Tutti accorgimenti necessari per permettere al nuovo viadotto di “galleggiare” tra le ripide montagne dell’appennino.

«Arrivare alla fine è stato molto emozionante – ammette oggi Franzese – forse allora non ci rendevamo neanche conto di quello che stavamo realizzando, e io seguivo i lavori con gli occhi del giovane ingegnere. Invece, a guardarla oggi, ti rendi conto che è stata realizzata un’opera davvero molto bella e particolare».