Shanghai, ecco il lockdown delle materie prime

Il ritorno del Covid-19 rallenta le attività del più grande porto mondiale, ma la ripresa è vicina

Dagli Stati Uniti d’America all’Australia, dall’Europa al Medio Oriente, i cantieri di mezzo mondo guardano oggi con attenzione cosa sta accadendo al porto di Shanghai, polmone del commercio globale dal quale partono non solo le materie prime come ferro e alluminio necessarie per la costruzione delle grandi opere, ma anche beni strategici per tanta parte dell’industria mondiale.

La città da trenta milioni di abitanti ospita infatti il principale terminal marittimo al mondo, capace di movimentare nel 2021 47 milioni di Teu (la misura che indica la grandezza dei container).

Dopo i rallentamenti dovuti alla guerra in Ucraina, questo terminal è oggi ostaggio della recrudescenza del Covid-19, che proprio a Shanghai ha fatto registrare negli ultimi giorni una nuova impennata di casi.

Il ritorno del virus, già duramente combattuto dal governo cinese, ha convinto le autorità a stringere nuovamente le maglie, aumentando al massimo i controlli e riducendo i rischi con la conseguenza che – come calcola la società di analisi logistica Windward – il 20% delle oltre 9mila navi portacontainer in attività a livello globale è adesso bloccato nella rada di Shanghai mentre attende il via libera per entrare in porto.

Navi bloccate nel porto di Shanghai

Il nuovo lockdown nella città di Shanghai è stato annunciato il 5 aprile scorso, quando il numero di casi è iniziato a risalire. Da allora le autorità portuali hanno adottato nuove misure restrittive legate agli accessi all’infrastruttura. Ogni settimana – calcola ancora Windward – circa 500 le navi arrivano e vengono costrette a rimanere alla fonda, in attesa di ottenere il via libera per entrare.

In media si calcola che un container che arriva oggi a Shanghai attende 12 giorni prima di essere caricato o scaricato da una nave, contro la media tradizionale di 5 giorni. Per evitare un rischio di vera e propria chiusura del porto, le autorità cinesi hanno dato vita a delle vere e proprie “bolle” di operai, che lavorano e vivono all’interno dell’infrastruttura, riducendo al massimo i contatti con l’esterno e quindi i rischi di contagio.

Nonostante questo, il contraccolpo si è fatto sentire su tanti settori, non solo su quello delle grandi opere. La Tesla, la società automobilistica californiana che produce le auto elettriche tanto negli Stati Uniti quanto in Cina, ha dichiarato a Bloomberg che l’imbuto di Shanghai è costato ad oggi un mese di lavoro.

Anche il gruppo Continental, uno dei più grandi produttori di componenti per auto, ha annunciato che i ritardi dei trasporti sullo snodo cinese comporteranno un taglio delle previsioni di crescita per tutto il 2022, che si fermerà ad un +5% contro il +8% previsto all’inizio dell’anno.

Shanghai al lavoro per ripartire e si vedono i primi segnali di ripresa

Quello che forse meglio di altro racconta la condizione in cui è ripiombata Shanghai è il dato della produzione industriale. Nel mese di marzo questo dato è crollato del 7,5% rispetto allo stesso mese del 2021, anno comunque difficile per il Covid-19. Gli effetti della politica “zero-Covid” adottata dal governo cinese che punta a reprimere con misure drastiche ogni genere di nuova diffusione del virus, si sono fatti sentire sull’economia di una megalopoli che oggi genera il 5% del Pil dell’intero paese. Attualmente la crisi non è ancora superata, ma nonostante questo si intravedono i primi segnali di ripartenza. Come dichiarato nei giorni scorsi dal vice sindaco Zhang Wei, il 70% delle 666 multinazionali presenti nell’area ha dichiarato di aver ripreso la produzione, mentre il porto – seppur a rilento – continua ad assicurare il trasporto dei materiali strategici per la produzione mondiale.

Sicuramente l’effetto imbuto sul grande scalo commerciale ha causato un considerevole aumento dei costi. Prima del Covid – riporta Assagenti, l’associazione degli agenti marittimi genovesi – trasportare un container dall’Italia alla Cina costava 1.500 dollari, oggi questo prezzo è schizzato a 12.000 dollari. Costi che si riflettono sulle materie prime, le stesse materie prime essenziali per la costruzione delle grandi opere in Italia così come nel mondo, sempre più strategiche per la ripartenza e la modernizzazione.